Crocifisso nelle classi

 

L’esposizione del crocefisso nella aule scolastiche  non ha  influenza sugli alunni

 

L’ottimismo che trapelava alla vigilia della sentenza sul crocifisso nelle scuole in seno al governo ha avuto conferma: la Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo riunitasi a Strasburgo ha assolto l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche.

 

La decisione della Corte è stata approvata con 15 voti favorevoli e due contrari. I giudici hanno accettato la tesi in base alla quale non sussistono elementi che provino l’eventuale influenza sugli alunni dell’esposizione del crocefisso nella aule scolastiche.

In questa maniera, la Corte scrive la parola fine sul dossier del caso ‘Lautsi contro Italia’. Un procedimento approdato a Strasburgo il 27 luglio del 2006. Allora l’avvocato Nicolò Paoletti presentò il ricorso con cui Sonia Lautsi, cittadina italiana nata finlandese, lamentò la presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica frequentata dai figli, ritenendo che si trattasse di un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e il diritto ad un’educazione e ad un insegnamento conformi alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori.

La prima sentenza della Corte (9 novembre 2009) diede sostanzialmente ragione alla signora Lautsi, affermando la violazione da parte dell’Italia di norme fondamentali sulla libertà di pensiero, convinzione e religione. Il Governo italiano, a quel punto, domandò il rinvio alla Grande Chambre della Corte, ritenendo la sentenza 2009 lesiva della libertà religiosa individuale e collettiva come riconosciuta dallo Stato italiano.


 

Sentenza sul crocifisso, ecco le motivazioni
Per la Corte, “un crocifisso apposto su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose”

 

Se è vero che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono tuttavia nella fattispecie elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni“. è un passo delle motivazione della sentenza della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo che, a grande maggioranza (15 giudici contro 2) ha dato ragione all’Italia nella causa “Lautsi e altri contro Italia” sulla presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche stabilendo che nell’esposizione del simbolo religioso non c’è violazione dei diritti dell’uomo.

Secondo la ricorrente Soile Lautsi, cittadina italiana di origini finlandesi, la presenza del crocifisso costituiva un’ingerenza incompatibile con libertà di pensiero, convinzione e di religione (art.9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950) così come del diritto all’istruzione, in particolare, il diritto ad un’educazione ed insegnamento conformi alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori (art.2 del Protocollo n.1).

Nella motivazione della sentenza, in merito proprio all’articolo 2 del protocollo 1 sul diritto all’istruzione, si legge che “dalla giurisprudenza della Corte emerge che l’obbligo degli Stati membri del Consiglio d’ Europa di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non riguarda solo il contenuto dell’istruzione e le modalità in cui viene essa dispensata: tale obbligo compete loro nell’esercizio dell’insieme delle ‘funzioni’ che gli Stati si assumono in materia di educazione e di insegnamento“.

Ciò “comprende l’allestimento degli ambienti scolastici qualora il diritto interno preveda che questa funzione incomba alle autorità pubbliche. Poiché la decisione riguardante la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche attiene alle funzioni assunte dallo stato italiano, essa rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del protocollo 1“.

Questa disposizione, si legge ancora, “attribuisce allo Stato l’obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire ai propri figli un’educazione e un insegnamento conformi alle loro convinzioni religiose e filosofiche“.

La Corte “constata che nel rendere obbligatoria la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria del paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico” e sottolinea altresì che “un crocifisso apposto su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose“. Infine, la Corte osserva che “il diritto della ricorrente, in quanto genitrice, di spiegare e consigliare i suoi figli e orientarli verso una direzione conforme alle proprie convinzioni filosofiche è rimasto intatto“. La Corte conclude dunque che “decidendo di mantenere il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai bambini della ricorrente, le autorità hanno agito entro i limiti dei poteri di cui dispone l’Italia nel quadro del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire tale istruzione secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche“. La Grande Camera della Corte è stata presieduta da Jean-Paul Costa (Francia), il giudice Giorgio Malinverni (Svizzera) ha espresso un’opinione dissenziente, condivisa dalla giudice Zdravka Kalaydjieva (Bulgaria).


 

Il crocifisso a scuola negli altri paesi europei


Subito dopo l’uscita della sentenza della Grande Camera della Corte europea per i diritti   dell’uomo che ha assolto l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, l’agenzia Asca ha pubblicato una breve scheda che raccoglie la disciplina della materia nelle aule scolastiche di altri paesi europei.

 

AUSTRIA. La presenza del crocifisso è garantita da una legge del 1949, confermata dal Concordato del 1962, in tutte le aule scolastiche nelle quali oltre metà degli alunni appartenga a una delle confessioni cristiane.

FRANCIA. In Francia l’articolo 28 della legge 9 dicembre 1905 vieta espressamente l’esposizione di simboli o emblemi religiosi su monumenti o in spazi pubblici, a eccezione dei luoghi di culto, dei campi di sepoltura, dei musei e delle mostre. Nel 2004, l’articolo 1 della legge n.228 del 15 marzo, chiamata “legge anti-velo” e approvata dal parlamento francese, precisa il divieto, nelle scuole primarie e secondarie, di indossare simboli o indumenti che ostentino l’appartenenza religiosa.

GERMANIA. Solo in Baviera il crocifisso è di norma esposto nelle aule delle scuole elementari, dato che il Land è storicamente cattolico. Se alcuni studenti obiettano che questo lede la loro libertà di coscienza, le autorità scolastiche aprono un procedimento di conciliazione, che può condurre alla rimozione. Una sentenza della Corte Costituzionale del 1995 ha sancito l’incostituzionalità della presenza dei simboli religiosi nelle aule scolastiche.

ROMANIA. In Romania, la decisione 323/2006 del Consiglio Nazionale per la Lotta alla Discriminazione ha stabilito che il ministero dell’Educazione deve “rispettare il carattere secolare dello stato e l’autonomia della religione“, e che “simboli religiosi devono essere mostrati solo durante le ore di religione o in aree dedicate esclusivamente all’educazione religiosa“. Il caso nasceva dal ricorso di Emil Moise, maestro e genitore della contea di Buzau, che contestava come l’esposizione pubblica di icone ortodosse costituisse una rottura della separazione tra Stato e Chiesa in Romania, e come ciò costituisse una discriminazione contro atei, agnostici e non religiosi.

SPAGNA. Il crocifisso è affisso nelle aule scolastiche in Spagna dal 1930 ed è tuttora presente, nonostante la costituzione aconfessionale dello Stato entrata in vigore nel 1978. Nel 2009 il governo guidato da Zapatero ha messo a punto un disegno di legge per togliere ogni simbolo religioso dalla scuola pubblica. Il dibattito era già nato poco prima che un giudice di Valladolid aveva deciso di “far ritirare i simboli religiosi dalle classi e dagli spazi comuni” in una scuola di Valladolid dopo che alcuni genitori nel 2005 ne avevano chiesto la rimozione.

SVIZZERA. In Svizzera il comune ticinese di Cadro decise di mettere il crocifisso in tutte le aule scolastiche, ma nel 1990 il Tribunale Federale si pronunciò contro l’esposizione dei crocifissi e per la loro rimozione con la motivazione che “lo Stato ha il dovere di assicurare la neutralità in ambito filosofico-religioso della sua scuola e non può identificarsi con una confessione o religione. Deve evitare che studenti e studentesse siano offesi nelle loro convinzioni religiose dalla continua presenza del simbolo di una religione a cui non appartengono”.


 

Sentenza sul crocifisso, soddisfazione diffusa


Sono quasi tutti positivi i primi commenti alla sentenza della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha assolto l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche.

 

 

Il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini in particolare esprime in una nota “profonda soddisfazione per la sentenza della Corte di Strasburgo, un pronunciamento nel quale si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell’identità culturale del nostro Paese”.”Il Crocifisso – continua il ministro – sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà”. “E’ un simbolo dunque – conclude – che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia né alla laicità dello Stato, né alla libertà religiosa. Oggi è un giorno importante per l’Europa e le sue istituzioni che finalmente, grazie a questa sentenza, si riavvicinano alle idee e alla sensibilità più profonda dei cittadini”.

Quella sul crocifisso in classe è una “vittoria” anche per la Radio Vaticana, vittoria che “non è solo dell’Italia ma anche di questi Paesi e di tutti coloro che ritenevano assurdo imporre la rimozione del Crocifisso dalle aule scolastiche“. La Radio Vaticana ha anche ricordato che la posizione italiana nella vicenda “ha trovato l’appoggio formale, davanti alla Corte, di San Marino, Malta, Lituania, Romania, Bulgaria, Principato di Monaco, Federazione Russa, Cipro, Grecia e Armenia“.

La soddisfazione della Santa Sede trapela anche nel primo commento del portavoce vaticano, p. Federico Lombardi: “La sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sull’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane e’ accolta con soddisfazione da parte della Santa Sede”.

Soddisfazione è espressa anche da esponenti di tutti i partiti politici, sia di centro-destra che di centro-sinistra, come pure dalla gran parte del mondo dell’associazionismo, non solo cattolico.

Ad uscire del coro è comprensibilmente il ricorrente Massimo Albertin, il medico di Abano Terme che otto anni fa aveva iniziato con la moglie finlandese, Solile Lautsi, una battaglia legale contro il crocifisso nella scuola frequentata dai figli, che dichiara: “Il pronunciamento di Strasburgo mi delude, molto, perché la prima sentenza su questa vicenda era clamorosamente chiara. Pare – dice il medico padovano – che sia tutto legato al “margine di apprezzamento” sull’applicazione dei diritti umani, per cui la Corte può decidere su determinate materie di lasciare più margine ai singoli Stati. Ma se ci sono dei diritti da far rispettare, non si capisce perché questi in Italia possano essere diversi da quello che sono in Francia o in altri Paesi dell’Unione”.

Critiche alla sentenza anche dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni: “La sentenza esprime una delle opinioni contrapposte in questa discussione. Nello specifico, ho sempre sostenuto una tesi differente da questa. La mia opinione personale è che nell’edificio pubblico ci deve essere spazio solo per simboli condivisi e non di una parte, anche se è rispettabile e di maggioranza. Ciò premesso, mi rendo conto della durezza polemica della questione e delle tradizioni e sensibilità della maggioranza cristiana del nostro Paese, e non ho voluto mai farne una guerra di religione”. Quanto alla tesi sostenuta dal governo italiano nel suo ricorso, per Di Segni, “dire che il crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto. E non mi ci riconosco come simbolo culturale”.

 

tuttoscuola.com       venerdì 18 marzo 2011



IL DIBATTITO



La Corte di Strasburgo assolve definitivamente l’Italia: mai violata la libertà di educazione. Con una maggioranza schiacciante (15 a 2) i giudici della «Grande Chambre» del Consiglio d’Europa hanno rovesciato l’esito di primo grado con un pronunciamento non più appellabile: il simbolo cristiano non sortisce alcun effetto di «indottrinamento» degli studenti e non va rimosso dalle pareti delle scuole.

A scopo di documentazione riportiamo in questa rassegna tre interventi di vescovi italiani. “Il primo e fondamentale fra questi valori, rappresentato precisamente dal crocifisso, è quello della persona umana: ” (violazione dei diritti umani – federalismo solidale – dibattito sulle dat: sono contributi della meditazione sul crocifisso) ” Senza quel crocifisso esposto nelle tante “agorà” della vita e della storia saremmo, insomma, certamente peggiori di come siamo” (ndr.: 1) è l’esposizione sulla pubblica piazza a influenzare le coscienze? La corte ha sentenziato proprio l’opposto e cioè che quel simbolo è inoffensivo e ininfluente; 2) purtroppo nel corso della storia quel segno è stato utilizzato anche in ben altro modo; 3) i diritti dell’uomo, come la libertà di coscienza o quella religiosa si sono imposti non solo fuori dalla chiesa ma spesso anche contro la chiesa; 4) occorrono soluzioni più rispettose di una società sempre più multiculurale e multireligiosa)
“Il crocifisso esprime certamente valori universali e da tutti condivisibili e già per questo la sentenza si giustifica ampiamente. Bisogna aggiungere che un sano pluralismo vive proprio di questa accoglienza reciproca,” (ndr.: sano pluralismo, sana libertà, sana (o positiva) laicità: ma chi stabilisce ciò che è sano o positivo? perché tanta paura della libertà, della laicità, del pluralismo tout court? È triste che il valore universale del crocifisso sia certificato da sentenze)
«A lungo andare l’assenza di un segno e di un linguaggio come quello del crocifisso avrebbe indebolito il senso religioso delle persone e annebbiato la loro capacità di esprimere la propria umanità. …” (ndr.: dato che da tanti decenni quel simbolo è presente nelle aule scolastiche, nei tribunali ecc., allora il senso religioso degli italiani si è in questi decenni rafforzato?)
“L’idea che un simbolo possa essere passivo è… estremamente insidiosa dal punto di vista pratico… anche se possiamo non rendercene conto fino a che si tratta di simboli portatori di valori positivi… Da non cristiano posso dire di essere impressionato dai commenti delle gerarchie religiose che festeggiano una sentenza dove si esclude che il crocifisso possa essere il simbolo dell’indottrinamento. Secondo me si tratta di una vera e propria profanazione. Colpisce la povertà di spirito di una chiesa ridotta a brandire questo argomento”
“Sorprende dunque l’entusiasmo dei credenti cattolici per una sentenza che indica nel crocifisso sì, un simbolo religioso, ma che viene sdoganato come «elemento culturale» e apparentemente «ininfluente».”
“…Rinnegare la tradizione della propria terra, la cultura e tutto quello che il cristianesimo ha seminato in quello che siamo oggi, è un controsenso; ma è che ci siamo dati un compito più alto, un disegno più nobile. Il rispetto di tutti. Uno stato laico.”

 

 

Sentenza del 2009                                         

 

La sentenza   del 2011      


 

 

Le “ore alternative all’insegnamento della religione cattolica”

Le “ore alternative all’insegnamento della religione cattolica” sono un “servizio strutturale obbligatorio” che non grava sui fondi che le istituzioni scolastiche destinano al pagamento delle supplenze brevi, ma che deve essere liquidato dal Ministero dell’economia e finanze.

È quanto emerge da una  nota (la n. 26482 del 7.3.2011) della Ragioneria Generale dello Stato che è stata trasmessa nei giorni scorsi ai propri uffici territoriali.

La nota fornisce precisazioni sulla liquidazione dei compensi spettanti al personale interessato, indicando anche a quali docenti deve essere attribuito prioritariamente tale insegnamento.

In ordine, devono essere impiegati per le ore di materia alternativa i docenti a tempo indeterminato che si dichiarano disponibili ad effettuare “ore eccedenti”; successivamente, si può ricorrere ai supplenti già titolari di contratto, che possono così ottenere un completamento dell’orario di servizio oppure se ne possono nominare altri solo per la materia alternativa.

La nota precisa anche che, data l’urgenza di provvedere ai pagamenti spettanti (finora i docenti di materia alternativa non sono stati retribuiti), gli Uffici territoriali possono accettare i provvedimenti di conferimento degli incarichi anche in forma cartacea e non per via telematica.

Secondo la Cisl scuola, che riporta la notizia sul suo sito (www.cislscuola.it) “si chiarisce definitivamente e positivamente, così, una questione per la quale nei mesi scorsi ha ripetutamente sollecitato l’Amministrazione a diramare specifici ed esplicativi chiarimenti”.


tuttoscuola.com mercoledì 16 marzo 2011

 

Intervista ad Angelo Bagnasco sui 150 anni dell’unità

 

“Politica in difficoltà ad ascoltare il Paese.

Estrema cautela nel cambiare la Carta”

 

 

 

Il cardinale Angelo Bagnasco ci riceve nello studio che fu di Giuseppe Siri, «un grande padre e un grande maestro». Anche l’inginocchiatoio e la cattedra, nella piccola cappella a fianco, sono gli stessi. Alle pareti, i ritratti dei  predecessori, Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone, lo stemma episcopale con il motto Christus spes mea, Cristo mia speranza. Dalle finestre si vedono i vicoli di Genova. Bagnasco è cresciuto in uno di questi, salita Montagnola della Marina. Ora è arcivescovo della sua città e capo dei vescovi italiani. Sottile, dita lunghe da statua gotica; molto cortese, molto fermo.

Eminenza, parlando dei fatti di 150 anni fa lei ha detto che «mai come in quella stagione la Provvidenza guidò gli eventi». Resta il fatto che il Risorgimento si fece contro la Chiesa, o no?
«Fu il cardinale Montini, per la prima volta, in un discorso al Campidoglio del 1961, a evocare “il gioco” della Provvidenza nella risoluzione della questione romana. In effetti, parte della Chiesa riteneva che la mancanza di un territorio geografico per garantire l’indipendenza del Papa dinanzi al mondo costituisse un problema insuperabile. Col tempo, al contrario, ci si sarebbe resi conto che la perdita del potere politico ha enormemente accresciuto la rilevanza morale della Chiesa nel mondo.
Il Risorgimento, se è parso all’inizio “contro” la Chiesa, in realtà non si è compiuto “senza” di essa.
Basterebbe pensare, nel filone risorgimentale, al contributo più federalista di Gioberti o di Rosmini, rispetto a quello più “unitarista”di Mazzini o di Garibaldi».

Vede rischi per l’unità nazionale in futuro?
«Ne vedo alcuni a partire da segnali in genere sottovalutati: a cominciare dal cambiamento demografico, dalla crisi economica, dalla fatica a uscire dai particolarismi e a promuovere le mediazioni necessarie per perseguire il bene comune. C’è poi la sfida della mondializzazione che un Paese spesso ripiegato su polemiche interne rischia di non cogliere. Il futuro dell’unità nazionale dipende anche dalla capacità del Paese di trovare una sua collocazione nello scenario globale. E rispetto a questo punto la Chiesa, che è una rete globale per vocazione ma anche nei fatti, può dare
un contributo importante. Dovremmo farci tutti più consapevoli del peso storico del nostro Paese, che è universalmente noto per la sua cultura e per la sua arte, ma che rappresenta pure il cuore del cattolicesimo. Dal Vangelo nasce quell’umanesimo plenario che è patrimonio universale. La sfida è concepire questa centralità non come una semplice eredità del passato, ma come un investimento per il futuro: l’unità non si fa solo attorno all’economia e alla politica, ma attorno a dei valori. Solo un nucleo vivo di valori suscita quel senso di appartenenza che resiste alle crisi ed è capace di generare una storia comune, di far superare ogni rischio di fuga e disgregazione».

Viviamo da anni in un clima di conflittualità permanente. È una rappresentazione esasperata del microcosmo politico o no? Quanto la divisione è reale, nel Paese?
«La scena pubblica offre una rappresentazione certamente distorta rispetto alla realtà del Paese.
Doppiamente distorta si può dire, dai media e dalla politica. I media, perché spesso esasperano episodi o realtà secondarie, mentre tacciono di altre ben più importanti o rendono invisibili le realtà positive di cui l’Italia è ricca. A volte, il sensazionalismo e la spettacolarizzazione creano una specie di “inquinamento ambientale”. E poi la distorsione della politica, che pare sempre meno il luogo della mediazione dei conflitti e degli interessi in funzione del bene comune, e sempre più un’arena in cui si cerca di neutralizzare l’avversario senza esclusione di colpi. Si alimenta così una sfiducia e un disinteresse per la politica, soprattutto nelle giovani generazioni, che non fa bene a nessuno.
Questa sorta di specchi deformanti lasciano fuori l’Italia più vera, la parte più sana e più vitale del Paese, che continua a rigenerare quegli elementi che fanno la ricchezza della nostra identità: la generosità, l’operosità, la creatività, la capacità di innovare nel solco di una tradizione, di sperare oltre difficoltà vecchie e nuove. Questa Italia esiste, ed è quella che costruisce l’unità».

La politica vive una stagione di crisi?
«La politica è diventata strumentale, sembra priva di grandi idee dopo la stagione per niente invidiabile delle ideologie, autoreferenziale e in difficoltà ad ascoltare il Paese, ad intercettare i bisogni e le speranze delle persone. È un gioco tra poteri, fortemente personalizzati, fatto di colpi bassi che demoliscono la fiducia nella democrazia e fanno il gioco del nichilismo, anche quando a parole si afferma il contrario. Alimentare lo scontro può essere una strategia per interessi che non sono quelli del Paese».


C’è il rischio che il federalismo impoverisca ulteriormente il Sud e allenti la coesione nazionale?

«È importante declinare la pluralità in chiave unitaria. C’è un modo di essere plurali che, nel valorizzare l’articolazione del Paese, può aiutare a conservare una unità di fronte alle spinte disgregatrici della globalizzazione. In questo senso un federalismo maturo non può voler dire localismo. Al contrario, vuol dire rinnovato patto di alleanza tra cittadini, territorio e Stato. Vuol dire realizzare il principio di sussidiarietà intersecando quello di solidarietà. Perché la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, così come la solidarietà senza la sussidiarietà
scade nell’assistenzialismo».

Il presidente del Consiglio è sotto processo per reati gravi. Quali riflessioni le suscita questa vicenda? Sono questioni private? O, se provate e condannate, rendono incompatibile la permanenza in una carica pubblica così importante come la guida del governo?
«Mi pare che la domanda esuli dal 150 ° e si concentri… sugli ultimi 150 giorni. In ogni caso, per il rispetto che si deve alla realtà, occorre attendere gli esiti della vicenda. È saggio non anticipare valutazioni e ancor meno sentenze, fermo restando il principio formulato nell’articolo 54 della Costituzione che recita: “Chiunque accetta di assumere un  mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta”».

In quale misura la Costituzione può essere modificata?
«La Costituzione non è un dogma di fede, però è un punto basilare. Non è che possiamo trattare la Carta con superficialità; andrebbe contro la sua stessa natura. In alcuni punti può essere opportunamente rivista, ma non la si può prendere alla leggera. La Carta è troppo seria, importante, costitutiva di una società e di uno Stato per esporla a incertezze che riguardano l’identità e la fisionomia di un popolo. Va trattata con estrema cautela. L’esperienza ci insegna che i processi di rivisitazione storicamente necessari si sa come cominciano ma non si sa mai come finiscano».

Che impressione le fa l’annunciata riforma della giustizia?
«Sento che da molte parti, di vario indirizzo, si invoca una certa rivisitazione, un migliore equilibrio. Questo è quel che sento dire. Dato che questo auspicio viene da parti diverse, che conosco molto bene, mi pare sia una testimonianza di verità. Del resto leggo e sento dichiarazioni dal mondo politico molto più possibiliste rispetto a qualche tempo fa, rispetto al niet assoluto. Mi sembra un altro segnale di onestà rispetto a situazioni di carattere strutturale che hanno bisogno di essere riviste».

La Cei come la Santa Sede hanno mostrato negli ultimi mesi grande sintonia con il Quirinale.
È anche un segnale di attenzione agli «arbitri» istituzionali, perché non vengano trascinati nello scontro?

«La figura del capo dello Stato realizza anche visivamente l’unità del Paese. Questo compito, che il presidente Napolitano svolge con competenza e dedizione, esprime una posizione sempre più necessaria in momenti di ricorrente contrasto politico. Anche la Chiesa non intende certo identificarsi con l’una o l’altra parte politica, ma svolgere il suo servizio a beneficio di tutti, credenti e non credenti».

La Chiesa denuncia da tempo l’emergenza educativa. Napolitano ha lanciato l’allarme su formazione e occupazione dei giovani. Cosa si può fare per loro, per l’Italia di domani?
«La perdita di senso del futuro è uno dei dati più preoccupanti del nostro Paese. Lo spazio per i giovani può essere ricreato se si torna a coltivare la speranza, che non è un generico atteggiamento di ottimismo ma un impegno verso qualcosa a cui come individui e come collettività tendiamo.
Nessuna società può prosperare senza investire nell’educazione dei suoi giovani. È un’antica saggezza che non dobbiamo smarrire neanche per un istante».

Ha davvero senso “consegnare anche la morte” a una legge? Non sarebbe meglio lasciare alla sensibilità di malati, medici e familiari la questione, compresa la possibilità di lasciarsi morire?
«Non si tratta di “consegnare la morte” alla legge, ma di garantire la tutela della salute e della vita di ogni persona umana in tutte le sue fasi e condizioni dell’esistenza, in particolare quelle più deboli.
Anche lo strumento di una legge può essere utile, dopo che l’esperienza degli ultimi anni ha mostrato i rischi derivanti dall’attuale vuoto legislativo».

Alcuni notano in lei uno stile meno «interventista» rispetto al suo predecessore. Sbagliano?
«Ciascuno porta con sé i tratti del proprio temperamento e della propria storia personale. Sono di natura piuttosto riservato. Non amo essere catapultato al centro della scena. Per il resto non credo ci sia discontinuità rispetto ai temi e alle questioni sollevate dal mio predecessore. A volte sorrido e qualche volta mi rammarico nel constatare quanto forzate siano certe interpretazioni, e quanto fantasiose siano le ricostruzioni su supposte divergenze dentro la Chiesa italiana e addirittura tra la Cei e il Vaticano».

Dopo gli studi classici in seminario e l’ordinazione sacerdotale, lei si iscrisse e si laureò in Filosofia alla Statale di Genova. Perché quella scelta?
«La scelta non fu la mia, ma del mio arcivescovo, il cardinale Giuseppe Siri. Fu lui che mi invitò, anzi mi ordinò di iscrivermi alla Facoltà di Filosofia, proprio negli anni della contestazione studentesca. Ricordo che ho sempre registrato rispetto e accoglienza. Erano tempi di barricate, di lezioni in birreria… Per me è stata una lezione importante di conoscenza e di dialogo a tutto campo con una cultura che non può fare a meno di cimentarsi con la grande questione cristiana e con le domande radicali circa il problema del male, il senso della vita, della storia e della morte».

Che ricordo personale ha di Siri?
«Conosceva intus et in cute tutti i suoi preti: dentro l’animo, e fuori. Nonostante il protocollo, che doveva essere assolutamente rispettato, tutto il clero avvertiva una grande paternità e un grande affetto. Tanto tuonava dal pulpito, tanto era accogliente e paziente nel rapporto personale. Sapeva ascoltare».

Crede che Siri sia stato sconfitto ma il suo pensiero abbia trovato una rivincita con il tempo?
«Il cardinale è stato se stesso sempre, anche nei momenti più difficili, sapendo che la storia avrebbe purificato tante conflittualità, alcune punte di ideologia. Non cercava l’affermazione di sé; desiderava solo servire la verità, anche quando non era riconosciuta, vista o presentata come faceva lui. La storia non evidenzia chi vince o chi perde. Fa emergere quel che rimane».

Tornando al Risorgimento, che cosa rimane della figura di Pio IX?
«La sua figura è segnata dal dilemma intorno alla necessità o meno del potere temporale in ordine alla missione universale. Non a caso Papa Mastai Ferretti non fu del tutto contrario alle prime aperture sociali e politiche, anche se poi dovette fare i conti con la realtà che rischiava di sfuggire di mano. L’essere stato di recente proclamato santo da Giovanni Paolo II attesta che la cifra più profonda della sua personalità resta comunque la sua fede incrollabile, pure dinanzi allo sfaldamento di un mondo. Alla fine, ciò che rende Pio IX se stesso è il suo slancio apostolico più che la sua strategia politica».

Come replica a chi oggi accusa la Chiesa di ingerenza?

«Mi sembrano accuse come minimo ingenerose. Gesù ha separato, come mai prima di lui, fede e politica, come ha scritto Benedetto XVI nel suo ultimo libro. La Chiesa, che ha a cuore l’essere umano e la sua umanità, non può non essere presente, con le opere oltre che con la parola, soprattutto laddove l’umanità è fragile e ha bisogno di essere riconosciuta, accompagnata, difesa.
Troppo spesso si definisce “ingerenza” la semplice presenza, che disturba il fondamentalismo laico perché propone una prospettiva antropologica incompatibile con l’idea di immanenza assoluta e individualista, e afferma una diversa idea di libertà e di umanità. La Chiesa interviene per difendere l’uomo debole, marginale, senza diritti: di volta in volta può essere il bambino nato e non nato, il giovane reso irrilevante da questa nostra società competitiva, l’anziano che rischia l’abbandono da parte di una società sempre più cinica e distratta. Ma questo non è politica. È servizio alla causa
dell’uomo nel nome del Signore».

 

in “Corriere della Sera” del 17 marzo 2011

I nuovi padri: intervista a Massimo Recalcati

Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?,  Cortina Editore, pag. 190, euro 14.


“Papi”: è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a “papi”, invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell’epoca ipermoderna, sull’evaporazione del padre, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l’interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).

Cosa resta dell’uomo che assicurava l’ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l’ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all’autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica… Si tratta allora di pensare al padre come “resto”, non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all’insegnamento esemplare, all’intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l’incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».

 

Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice “sì!” a ciò che esiste, senza sprofondare nell’abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell’avvenire».

 

In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l’insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo… Quando Freud gli attribuiva il saper “tenere gli occhi chiusi”, intendeva sottolineare il carattere “umanizzato” della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita… È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un “no!” che sia davvero un “no!”, e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».

 

Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all’adozione… C’era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre “interdice” il godimento incestuoso e “separa” la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero “nuovo” e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare.
Intesa come legame “naturale”, la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l’importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un’appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza… Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».

 

Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto “l’ordine del sangue”. Prendiamo Million Dollar Baby…
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un’adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia… “Io voglio lei!”. “Sarò il tuo allenatore!”: Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo  eccezione alla propria etica (“Io non alleno ragazze!”) e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l’atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l’ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l’ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l’abbandona come “una causa persa”, alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».

Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».

 

in “la Repubblica” del 9 marzo 2011

Nuove adozioni per i libri di testo

La CM n. 18 del 25 febbraio 2011 ha diramato istruzioni sull’adozione dei libri di testo per il prossimo anno scolastico 2011-12.
Nel confermare quanto già era stato stabilito negli anni precedenti con la CM 16/09 e la CM 23/10, l’attuale circolare aggiunge solo alcune precisazioni, su cui conviene soffermarsi, anche perché in parte dedicate proprio all’Irc.
Come è noto, la legge 133/08, art. 15, ha stabilito che dal 2011-12 potranno essere adottati solo libri di testo scaricabili da internet o in versione mista, cartacea ed elettronica.
La legge 169/08, art. 5, ha poi aggiunto che i libri devono essere adottati per almeno un quinquennio nella scuola primaria e per almeno un sessennio nella secondaria.
Ciò che preoccupa gli insegnanti è soprattutto il vincolo di adozione pluriennale, dato che sulla versione elettronica si sono mobilitate le case editrici che ormai propongono quasi esclusivamente testi in versione mista.
Il vincolo pluriennale, invece, ricade sulle spalle degli insegnanti come una limitazione talvolta insopportabile, dato che il libro di testo rimane ancora il principale sussidio didattico per ogni docente.
Come è stato ribadito da ultimo con la Nota ministeriale del 20-5-2009, prot.
5361, a seguito di uno specifico contenzioso amministrativo, nemmeno il trasferimento dell’insegnante può giustificare la modifica del testo adottato prima della scadenza prevista.
La legge 169/08 consente la deroga solo in presenza di «specifiche e motivate esigenze», che la successiva legge 167/09, art. 1-ter, ha precisato doversi connettere «con la modifica di ordinamenti scolastici ovvero con la scelta di testi in formato misto o scaricabili da internet».
Attualmente ci troviamo in presenza di una riforma ordinamentale, che ha interessato le scuole del secondo ciclo a partire proprio dal corrente anno scolastico, e quindi è possibile immaginare una deroga ai vincoli di adozione pluriennale.
La CM 18/11, infatti, chiarisce che proprio per via di questa circostanza «i collegi dei docenti, limitatamente alle adozioni per la prima classe della scuola secondaria di secondo grado, potranno valutare l’opportunità di confermare i testi già adottati ovvero di procedere a nuove adozioni», anche se il periodo di adozione non è ancora scaduto.
Specificamente per l’Irc, inoltre, la CM 18/11 ricorda che quest’anno sono entrate in vigore le Indicazioni per le scuole del primo ciclo (DPR 11-2-2010) e quindi si può giustificare la modifica dei libri di testo in adozione per l’Irc in tutte le classi del primo ciclo.
Ovviamente si tratta di una possibilità e non di un obbligo, anche perché il mercato editoriale ancora non ha proposto un sufficiente numero di libri in linea con le nuove Indicazioni e quindi gli Idr potranno decidere di rinviare l’aggiornamento dei loro libri di testo in attesa di una maggiore varietà di offerte.
La situazione si ripropone anche nelle scuole del secondo ciclo, dove sono entrate in vigore quest’anno le Indicazioni diffuse con la CM 70/10.
Licei, tecnici e professionali non sono espressamente citati a proposito dell’Irc, ma si deve ritenere che il loro caso possa rientrare nelle modifiche ordinamentali dell’intero secondo ciclo, cui si fa riferimento in maniera generale nella circolare.
Pertanto, tutti gli Idr potranno non tener conto dei vincoli di adozione, salvo diversa valutazione dettata da motivi di prudenza.
Nella CM 18/11 si richiama anche il rispetto dei tetti di spesa individuati per le scuole secondarie di primo e secondo grado.
In proposito capita che talvolta le scuole ricorrano a qualche misura artificiosa per rientrare nei limiti, escludendo alcuni libri o proponendoli solo come consigliati.
Si tratta di “trucchi” che spesso coinvolgono l’Irc, ma occorre affermare con chiarezza che nessuna disciplina può essere esclusa dall’adozione formale dei libri di testo.
La scusa della facoltatività dell’Irc non regge, poiché tutti gli studenti avvalentisi sarebbero in tal modo costretti a sfondare il tetto di spesa per potersi dotare dei necessari strumenti didattici.
Viceversa, contando anche l’Irc tra i libri di testo che devono rientrare nei limiti di spesa si realizza implicitamente un ulteriore risparmio per i non avvalentisi.

Il crocifisso e le nostre radici

Il crocifisso di stato Sergio Luzzato Einaudi editore Senza il crocifisso sul muro, dicono, l’Italia non sarebbe piú la stessa.
Lo dicono tanti cattolici, ma anche tanti laici.
Io penso che gli uni e gli altri abbiano ragione.
Senza il crocifisso negli edifici statali l’Italia non sarebbe piú la stessa: sarebbe piú giusta, piú seria, migliore.
Perché in Italia alle pareti di scuole, ospedali e perfino tribunali stanno appesi dei crocifissi? E perché non dovrebbero? Molte persone non li vedono nemmeno, molte altre ritengono che sia questa una consuetudine innocua.
Ma il crocifisso di Stato ha anche fieri nemici, e strenui difensori.
Se periodicamente si riaccende la polemica attorno a un simbolo cosí ingombrante, è perché la discussione non può essere fatta soltanto di regole europee, principî astratti, conflitti identitari.
Quel «pezzo di legno» non è lí da sempre e per sempre: ha tutta una storia, ricca di sorprese, trasformazioni, manipolazioni.
«Sta su quelle pareti perché là lo ha preparato a giungere un passato remoto, perché là lo ha imposto un passato prossimo, perché là lo mantiene una specie di presente storico».
Il crocifisso sul muro è un problema di storia.
Una storia da conoscere, e da raddrizzare.
Quel saggio che attacca il “crocifisso di stato” di Carlo Galli in “la Repubblica” del 28 febbraio 2011 I luoghi pubblici statali possono, debbono, o non debbono, avere un crocifisso alle pareti? Vexata quaestio, ripresa con foga da Sergio Luzzatto nel suo ultimo pamphlet, Il Crocifisso di Stato (Einaudi), in cui lo storico non si fa mancare illustri bersagli, dal papa a Napolitano, da Cacciari a, soprattutto, Natalia Ginzurg (importante autrice della medesima casa editrice, bersagliata dalla polemica in quanto aveva difeso con argomenti laici l’esposizione del crocifisso).
Il punto centrale del libro è che togliere il crocefisso dagli spazi pubblici statali (non da quelli pubblico-sociali) non è un atto di anticlericalismo ma di laicità.
E questa non è cristofobia, come sostengono le gerarchie, perché la laicità non è una posizione di parte: è anzi l’obbedienza alle logiche della modernità politica, che vedono nello Stato il garante delle libertà di tutti, e quindi gli vietano di favorire l’una o l’altra parte; e l’esporre il crocifisso è certo attribuire il favore di Stato a una specifica religione (come afferma una sentenza del tribunale europeo di Strasburgo).
Un favore che, per di più, non è fondato su alcuna legge ma solo su circolari di epoca fascista, indifendibili e inapplicabili; e che viene giustificato, di solito, con due argomenti: il crocifisso è simbolo dell’umana sofferenza e non discrimina nessuno (la tesi di Ginzburg); è talmente intrecciato alla storia d’Italia e ha a tal punto plasmato l’identità nazionale che è simbolo laico (come ha affermato il Consiglio di Stato).
Al primo argomento Luzzatto replica che il crocifisso ha una storia non universale e neutra, ma particolare e polemica, che lo ha visto anche trasformato in oggetto di odio e in arma – certo, impropria – di odio.
Il secondo argomento, poi, è ingenuo e quasi blasfemo.
Ingenuo perché l’identità nazionale è dinamica, e non fissa; e oggi certamente l’Italia non è più esclusivamente e neppure maggioritariamente cattolica (i crocefissi sono sempre più rari nelle case); inoltre, per quanto il cattolicesimo abbia incrociato il formarsi storico della nazione, Paesi non meno cattolici dell’Italia, come la Francia e la Spagna, sono ben più coerenti del nostro rispetto all’intrinseca laicità della cosa pubblica.
Quasi blasfemo, infine, perché associa il Figlio di Dio al potere politico, facendone lo strumento di una strategia di ‘legge e ordine’, anziché di liberazione profetica, di promessa di un’altra vita.
La Chiesa costantiniana – protagonista del compromesso fra trono e altare – oggi non è più, ufficialmente, all’ordine del giorno.
Il cattolicesimo non è più la sola religione ufficiale dello Stato, come si leggeva nello Statuto albertino, recepito nei Patti lateranensi e quindi anche dalla costituzione repubblicana (e anche per questo nel 1984 i Patti furono riveduti).
L’Italia è sempre più secolarizzata, e sempre più ospita residenti e cittadini non cattolici.
Perché, allora, resta in questo limbo di indifferenza e, quando qualcuno pone la questione, di imbarazzo? Il silenzio come regola, e – quando è il caso – le corali manifestazioni, da parte di tutte le forze politiche, di adesione al crocifisso di Stato nascono certo dall’obiettivo di non inimicarsi la Chiesa.
Ma i cittadini? Il libro non risponde direttamente, ma si può avanzare un’ipotesi: che il loro tacito consenso alla presenza del crocifisso sia l’altra faccia della parallela e concomitante sfiducia nella statualità.
Insomma, senza crocifisso, e il suo uso improprio, gli italiani – che sanno bene che cosa pensare del loro Stato – si sentirebbero davvero soli.
E quindi se lo tengono.
Non per fede nella religione ma per mancanza di fede nella cosa pubblica.
Sul crocifisso un muro divide le aule d’Italia di Michele Ainis in “il Sole 24 Ore” del 27 marzo 2011 Poverocristo o povero Cristo? Dobbiamo prendere partito per Marcello Montagnana (l’insegnante di Cuneo che andò sotto processo per aver rifiutato l’ufficio di scrutatore alle politiche del 1994, protestando contro l’esposizione del crocifisso nei seggi elettorali) o è giusto schierarsi per il simbolo dolente che campeggia in tutti i nostri edifici pubblici? Sergio Luzzatto sceglie decisamente il primo, ma senza mancare di rispetto nei confronti del secondo.
Il rispetto del quale in Italia siamo orfani è piuttosto un altro: quello che andrebbe tributato al principio di laicità del nostro stato.
Lo professiamo a chiacchiere, però nei fatti ce lo mettiamo sotto i piedi.
E a tale riguardo la vicenda del crocifisso è la più dibattuta, ma non la più eloquente.
Ne è prova per esempio il finanziamento pubblico alle scuole private, che al 90 per cento sono scuole cattoliche: la Costituzione lo vieta espressamente, una legge del 2000 lo permette allegramente.
Sarà per questo, per la cifra di disperazione che ormai accompagna i laici nel paese in cui torreggia il Cupolone, che Luzzatto ha scritto un libro acre come zolfo, dove risuonano gli accenti del pamphlet.
E dove riecheggia la storia di Montagnana insieme a quella dei coniugi Lautsi, che hanno ingaggiato una lunga battaglia giuridica e civile contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole.
Potremmo aggiungervi pure il giudice Tosti, che ha fatto altrettanto per espellere questo simbolo  ingombrante dai muri delle aule giudiziarie, guadagnandone in cambio una sfilza di processi e di castighi.
L’elenco è lungo.
Ma è lungo anche l’elenco dei paladini del crocifisso, dove figurano intellettuali insospettabili come Natalia Ginzburg, donna laica e di sinistra.
Nonché nomi importanti dell’intellighenzia cattolica italiana, quali Massimo Cacciari e Franco Cardini.
Luzzatto ricorda – con qualche grammo di perfidia – che il primo viene dall’operaismo sessantottesco, il secondo dal neofascismo degli anni Cinquanta, però l’approdo è identico.
E quale arma dialettica viene brandita in questi casi? Un coltello a doppia lama, benché le due lame siano poi tutt’altro che affilate.
In primo luogo – s’osserva – quella croce di legno non fa male a nessuno, è un dettaglio dell’arredamento pubblico sul quale i più passano via senza degnarlo d’uno sguardo.
Curiosa questa difesa della rilevanza pubblica del crocifisso in nome della sua irrilevanza pubblica.
Ma a sprezzo della logica, gli indomiti crociati ci rovesciano addosso una domanda: se è questione dappoco, allora perché tanto accanimento? Risposta: perché quand’anche fosse un solo uomo a sentirsene ferito, a venire sopraffatto da una religione dominante che lo esclude, uno stato democratico avrebbe l’obbligo d’aprire un ombrello in sua difesa.
I diritti valgono per i deboli, non per i forti.
Servono ai meno, non ai più. Specialmente quando entra in gioco la libertà di religione, che storicamente ha preceduto la stessa libertà di manifestazione del pensiero.
Se fossero libere soltanto le parole di chi canta nel coro, sarebbe come stabilire in una legge che hanno diritto al vino esclusivamente gli ubriachi.
D’altronde lo ha dichiarato pure la Consulta, attraverso un nutrito gruppo di pronunzie che s’affaccia sul volgere degli anni Settanta: il principio di maggioranza non si applica alla sfera religiosa, e dunque è “inaccettabile” ogni discriminazione basata sul numero degli appartenenti ai vari culti.
Non fu minoranza la stessa Chiesa cattolica? Venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli, anche se adesso qualcuno lo ha un po’ dimenticato.
Ma si può ben essere cattolici senza pretendere d’imporre al prossimo le insegne del papato.
Ne è testimonianza don Milani, che tolse il crocifisso dalle pareti della scuola di Calenzano per cancellare ogni sospetto di pedagogia confessionale.
Ne è testimonianza il gesto di Cesare Ruperto, ex presidente della Corte costituzionale: benché cattolico, all’atto del suo insediamento fece eliminare il crocifisso dall’aula delle udienze alla Consulta.
Perché quello spazio è pubblico, di tutti.
E perché la nostra carta afferma l’eguaglianza delle confessioni religiose.
Qui però s’affaccia l’altro argomento inalberato dai crociati: non è per le nostre idee particolari che sosteniamo il crocifisso obbligatorio, lo facciamo per il vostro bene, per difendere la storia della quale anche voi atei o miscredenti siete figli, e dunque per difendere l’identità che vi appartiene.
Non è forse vero che riposate di domenica (“il giorno del Signore”), che contate gli anni a partire dalla nascita di Cristo? E allora il crocifisso è un simbolo civile, allora la laicità si nutre di valori religiosi: nel 2006 lo ha scritto anche il Consiglio di stato.
Dev’essere per questo, per la santificazione dell’ossimoro operata dai nostri tribunali, che Luzzatto dichiara in ultimo tutta la sua sfiducia nel diritto.
Dice: a breve arriverà un verdetto dalla corte di Strasburgo, ma tanto per noi non cambierà mai nulla.
Sbaglia, perché la querelle si vince o si perde sull’altare della legge.
Ma non è detto che la laicità reclami un muro nudo.
Non è detto che la difenderà un divieto, come nella Francia che nel 2004 ha proibito il velo in classe, nel 2010 il burqa.
Possiamo aggiungere, anziché togliere.
Possiamo allestire un muro colorato, dove campeggiano i simboli d’ogni religione, e anche lo stemma di chi non ha religione.
Quanto a noi laici, ci basterebbe il faccione corrugato di Voltaire.
Ma una civiltà senza segni è priva di vita di Davide Rondoni in “il Sole 24 Ore” del 27 febbraio 2011 A me, cristiano, il libro di Sergio Luzzatto non persuade, anche per la scelta del pamphlet come strumento di comunicazione.
Per affrontare un tema di così vasta portata occorreva un altro passo.
Mi pare che l’autore dimentichi come da quel giorno sul Golgota, fino ai giorni nostri per il fatto d’esser cristiani, in molte zone del mondo, c’è un sacco di gente che ha perso la vita.
A quest’odio che si fa più cupo non a caso quando fa i conti con la carnalità scandalosa del crocifisso, i cristiani han spesso risposto facendosi il segno della croce, graffiandoselo nel cuore o sui muri, tessendolo in segreto con misera canapa, con fili di ferro e di lacrime.
Come il nome di un amore.
O alzandolo su vessilli.
Mai nascondendolo dalla scena della storia.
Nelle più oscure fosse di dolore sono stati fatti crocefissi di ogni genere, minimi e segreti, per guardare il senso della pena.
Per la mia fede, stracciata e semplice che ci sia o no, Gesù esposto nelle aule di scuola non cambia niente.
So dove inginocchiarmi di fronte a Lui.
Ma a me, come italiano, fa piacere: significa che questo paese, dove da tutto il mondo vengono a vedere luoghi in buona parte legati alla storia e all’arte nate e sviluppate con il cristianesimo, è fatto non solo di istituzioni ma anche di anima e storia, di vita.
Così come sono soddisfatto di vedere esposti simboli di origine religiosa o no in tanti luoghi pubblici in giro per il mondo.
Secondo Il crocifisso di Stato invece la croce esposta è sintesi di tutti i mali italiani (a proposito, come la mettiamo con la bandiera della Svizzera, paese dove l’autore ha scelto di vivere, visto che ha la croce sulla bandiera nazionale stessa?).
Per Luzzatto ogni religione dovrebbe ritirarsi nello spazio del privato e se la prende quindi con chi non condivide la sua tesi.
Natalia Ginzburg, per esempio, viene definita “melensa”, poiché ricordò in un suo articolo su «l’Unità» che il crocifisso esposto non fa male a nessuno e mostra un elemento vitale della nostra civiltà: guardare alla vita con pietà.
Perché bollare come “melenso” il ragionare dell’esponente di una famiglia sfregiata con il sangue? Luzzatto poi ce l’ha con il presidente Giorgio Napolitano che, da ministro, non rispose ad alcuni di coloro che sollevarono il problema del crocifisso nei luoghi pubblici.
Prende di mira molti, da Travaglio a Mussolini, da Padre Pio a Giuliano Ferrara.
Il parlare in nome della “storia” e della “scienza” non lo esime da contraddizioni: rilancia l’idea che il crocifisso sia stato nel Medioevo segno di guerra a cui fedeli d’altre religioni han dovuto reagire e poi ricorda le ingiurie portate in epoca precedente da fanatici ebrei alla croce.
Racconta le vicende gravose di coloro che con tenacia han voluto portare davanti a giudici e presidenti il loro sentirsi offesi dalla presenza del crocifisso.
Storie rispettabili e comprensibili, ma con le quali l’autore stesso finisce per trovarsi in disaccordo.
Costoro, “offesi” dal crocifisso, non volevano nessun simbolo.
Luzzatto deve invece convenire con il mio amico professor J.
Weiler, insigne giurista ebreo di New York che ha difeso a Strasburgo il ricorso dell’Italia e d’altri paesi contro l’ingiunzione di togliere i crocefissi dai luoghi pubblici.
Weiler infatti – con brillantezza e humour, presentandosi con la kippah d’ortodosso ebreo per difendere il crocifisso – ha mostrato ai giudici che non è possibile in questo genere di faccende arrivare a un grado zero di problema.
I simboli religiosi non vanno “laicizzati”, ma letti per il valore che hanno a riguardo della storia di un popolo.
Cittadini britannici potranno sempre sentirsi offesi dal fatto che nel loro inno ci si rivolga a Dio.
Eliminando tali parole si sentirebbero offesi i credenti.
In ogni caso non si può negare il valore di tali parole per la storia di quel paese.
Insomma, la storia non sopporta l’inseguimento dell’attrito zero.
Inutile invocare simboli buoni che “uniscono” contro cattivi che “dividono”: ogni segno porta con sé la necessità della comprensione e della tolleranza.
Il muro bianco è solo negazione di ogni storia.
Una civiltà che non dà luogo a segni condivisi – come è il crocifisso – è civiltà morta.
Perciò Luzzatto finisce il pamphlet riproponendo l’idea di sostituire il crocifisso con l’elica del Dna, unico simbolo che ci accomunerebbe.
Ma non è proprio il Dna ci distingue? Dividendo i malati dai sani, i fortunati dagli imperfetti, i bassi dagli  pilungoni…
Il crocifisso e le nostre radici di Fulvio De Giorgi in “Appunti di cultura e politica” n.
3 del maggio-giugno 2010 Dopo le prime reazioni ‘a caldo’, segnate dalla foga (e non esenti da strumentalizzazioni), forse è possibile avviare una riflessione più serena sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativa al Crocefisso nelle scuole italiane: una riflessione controcorrente, ma non astiosamente provocatoria, e che dà una valutazione positiva della sentenza, se intesa in modo profondo e non superficiale o riduttivo.
Le diverse posizioni Vi sono posizioni serie e pensose, passate e presenti, che vedono nel Crocefisso unicamente un simbolo culturale, “interamente secolarizzato” (Carlo Ossola), una “testimonianza storica” (Piero Ostellino), ma di portata universale: segno rivoluzionario dell’uguaglianza tra gli uomini e del dolore umano (Natalia Ginzburg); simbolo della prevalenza dell’amore sul potere (Vito  ancuso), del disinteresse e del rifiuto di ogni compravendita della fede (Aurelio Mancuso), di pace e di amore (Carlo Cardia), di accoglienza e di donazione di sé (Massimo Cacciari), di libertà e di gratuità (Marco Travaglio); volto dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta (Claudio Magris).
È bello e consolante che ci siano questi giudizi, che dimostrano quale etica profonda sia presente nell’umanesimo laico italiano.
Ma c’è un consenso universale su questa universalità culturale del Crocefisso? Non c’è.
Vi sono infatti almeno due posizioni, altrettanto rispettabili, che vanno in senso opposto.
C’è chi lo considera sì simbolo secolare e culturale ma dell’identità nazionale (Carlo Azelio Ciampi e altri) o dell’identità ebraico-cristiana europea (Giorgio Israel), perciò non universale.
C’è pure chi lo considera non simbolo culturale secolarizzato (come la M di McDonald’s) ma unicamente o soprattutto simbolo religioso (Stefano Rodotà e Emilio Gentile tra i laici, Marinella Peroni e Massimo Fagioli e altri, tra i cristiani).
Ci sono poi i leghisti che lo considerano simbolo identitario (non è ben chiaro se dell’identità italiana o di quella padana), ma non certo simbolo dell’uguaglianza tra gli uomini e del dolore umano (cioè anche del dolore dei poveri immigrati): simbolo dunque di respingimento di altre identità culturali.
Simbolo del cristianesimo Ma cosa implica – sul piano istituzionale e giuridico – che sia un simbolo religioso? Consideriamolo nella vicenda dell’Italia unita.
La Costituzione dell’Italia unita, dalla sua nascita all’avvento della Repubblica, era lo Statuto albertino che sanciva, all’art.
1, che la religione cattolica, apostolica romana “è la sola religione dello Stato”.
Quindi il Regno d’Italia era una monarchia costituzionale e liberale ed era pure uno Stato confessionale (gli altri culti erano “tollerati”).
In conseguenza di tale assetto, il Regolamento attuativo della Legge Casati (che nel 1859 disegnava l’architettura del sistema scolastico italiano) per le scuole elementari prevedeva che ogni scuola dovesse essere fornita – tra le altre suppellettili – anche di un Crocefisso (RD n.
4336, 15 settembre 1860).
Lo Statuto albertino vigeva – ancorché stravolto nelle sue garanzie liberali – anche durante il fascismo.
Il Concordato del 1929 prevedeva dunque che l’insegnamento della religione cattolica dovesse essere fondamento e coronamento di tutta l’istruzione pubblica: accentuazione della confessionalità dello Stato, che già c’era e di cui il Crocefisso nelle aule era conseguenza.
Con la fine del fascismo e della monarchia e con l’avvento della Repubblica la situazione cambia.
La Costituzione del 1948 afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art.
3), la libertà di tutte le confessioni religiose (art.
8), la reciproca autonomia tra Stato e Chiesa cattolica (art.
7).
Dunque la Repubblica italiana non è più uno Stato confessionale (con un’unica religione ufficiale), ma uno Stato laico.
Tuttavia la Costituzione riconosce – come voleva allora la Chiesa cattolica – valore costituzionale ai Patti Lateranensi, dunque al Concordato del 1929, con le affermazioni che abbiamo visto (e che saranno recepite ancora nei Programmi della scuola elementare del 1955).
Il Crocefisso nelle scuole dunque resta: non più giustificato dalla Costituzione, ma dal residuo confessionalismo implicato nel Concordato.
Il Concilio Vaticano II porta però un grande rinnovamento nella Chiesa cattolica, che afferma la sua autonomia dalla comunità politica, la libertà religiosa, la rinunzia a mezzi contrari allo spirito evangelico.
Afferma: “la potestà civile deve provvedere che l’uguaglianza giuridica dei cittadini, che appartiene essa pure al bene comune della società, per motivi religiosi non sia, apertamente o in forma occulta, mai lesa, e che non si facciano fra essi discriminazioni.
[…] Inoltre, poiché la società civile ha il diritto alla protezione contro i disordini che si possono verificare sotto pretesto della libertà religiosa, spetta soprattutto alla potestà civile prestare una tale protezione; ciò però deve compiersi non in modo arbitrario o favorendo iniquamente un determinato partito, ma secondo norme giuridiche, conformi all’ordine morale obiettivo: norme giuridiche postulate e dall’efficace difesa dei diritti e della loro pacifica composizione a vantaggio di tutti i cittadini” (Dignitatis Humanae, nn.
6-7).
In ogni caso, la Chiesa cattolica “non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile.
Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre  disposizioni” (Gaudium et Spes, n.
76).
I principi della Costituzione e le affermazioni del Concilio portano dunque, nel 1984, alla revisione bilaterale del Concordato del 1929, sancendo in modo inequivocabile: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano” (Protocollo addizionale).
Non essendoci più dunque nessuna religione di Stato, nessun simbolo religioso può svolgere una funzione identitaria in uno spazio pubblico-istituzionale.
Ciò significa che è diritto individuale (di portata universale: cioè valido per tutti) rifiutare un simbolo religioso come simbolo identitario dello Stato.
Ciò significa, ancora, che oltre ai simboli identitari nazionali (il tricolore e lo stemma della Repubblica), c’è anche un simbolo valoriale della Repubblica che è – e non se ne vedono altri – il Testo della Costituzione.
Se vuole affermare questo, la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è indiscutibilmente giusta.
Integralismo o integrazione Ma oggi la nuova realtà multiculturale e multireligiosa porta pure a constatare che “nuove circostanze esigano altre disposizioni”.
Oggi una visione laicista che voglia difendere la laicità espungendo totalmente le religioni dalla scuola pubblica non andrebbe verso il bene comune di una cittadinanza condivisa, di una democrazia partecipativa, di una convivenza serena e pluralista.
La gestione di una società multiculturale può avvenire secondo due principi: o con un assimilazionismo degli individui, unito ad uno scontro di civiltà tra comunità religiose o valoriali (principio di integralismo); oppure con un universalismo individuale dei diritti, unito all’uguaglianza e fraternità delle comunità religiose o valoriali (principio di integrazione).
Ma, a sua volta, l’integrazione si può realizzare con due diverse forme di laicità: o con una laicità di disintegrazione che per integrare toglie dalle istituzioni tutti i riferimenti religiosi o valoriali, considerando l’ambito pubblico come un sottrattore religioso (o multireligioso); oppure con una laicità di integrazione che accoglie e armonizza nelle istituzioni tutte le comunità religiose o valoriali presenti, considerando l’ambito pubblico come un moltiplicatore interreligioso (che, cioè, non solo attrae e non sottrae, ma fa dialogare tra loro e perciò moltiplica la fraternità tra tutte le comunità religiose o valoriali).
Ecco allora che nella scuola pubblica, per rispettare il diritto di libertà di coscienza di ogni individuo, nessun simbolo religioso può avere una posizione ‘fisica’ preminente ed una funzione simbolico-identitaria dello spazio scolastico; ma pure, per favorire l’uguaglianza e la fraternità tra comunità religiose o valoriali, tutti i simboli religiosi o valoriali delle comunità a cui appartengono le famiglie degli scolari devono essere presenti.
Lo scopo è conoscitivo (non culturale: c’è una conoscenza religiosa che, come tale, è importante per tutti) e pedagogico: educare alla conoscenza delle religioni e delle opzioni areligiose, delle loro visioni, della loro storia, dei loro simboli.
Parentesi: in questo contesto, non è detto che in tutti i gradi di scuola il simbolo pedagogicamente più adeguato del Cristianesimo sia il Crocefisso (per esempio, nelle scuole dell’infanzia e primarie, potrebbe essere la Madonna con il Bambino, come voleva la Montessori per le sue Case dei Bambini).
Infine una conclusione, per i cristiani.
La nostra fede sarà riconoscibile non per le nostre radici, culturalmente esibite, ma per i nostri frutti, esistenzialmente vissuti come carità.
Per far questo non bisogna dissotterrare e sbandierare al cielo le radici, ma affondarle, nel nostro cuore, in Cristo.
Cristo risorto, Persona viva oggi (non statua inanimata di ieri, non figura mitologica culturale: come gli dei pagani per Monti e Foscolo), è la radice necessaria per portare frutti di Vangelo, secondo la via stretta indicata nel Discorso della Montagna.
Fulvio De Giorgi