Convegno di aggiornamento per Insegnanti di Religione

Traguardi per lo sviluppo e profili di competenza nell’IRC

23-25 marzo 2012.

Istituto Sacro Cuore, Via Marsala, 42, Roma.

 

L’Istituto di Catechetica della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Salesiana di Roma promuove un incontro di due giorni con gli Insegnanti di religione di ogni ordine e grado, che avrà luogo a Roma il 23-25 marzo 2012, con sede presso l’Istituto Salesiano S. Cuore in Via Marsala 42.

 

Obiettivo del Corso.

Il tema delle competenze e dei profili fermenta la Scuola attuale: impone una precisa definizione per ciascuna delle discipline

Naturale quindi la tempestiva elaborazione, che impegna la CEI.

Altrettanto urgente la riflessione dell’Istituto di Catechetica che intende promuovere, nella pedagogia specifica ermeneutica, le indicazioni applicative più consone.

Il Convegno si propone come spazio urgente per la riflessione personale e per l’intervento educativo del Docente di Religione Cattolica.

(Testo base: TRENTI Z., Dire Dio. Dal rifiuto all’invocazione, Roma, Armando, 2011).

 

 

PROGRAMMA

 

Sabato, 24 mattino

9.00      Lodi

9,15-10.30:     Prof. Michele Pellerey.

Traguardi per lo sviluppo e profili di competenza nella scuola attuale.

10.30 -11.00 Intervallo

11.00 – 12.30: Prof. Cesare Bissoli.

Le competenze per l’IRC: Le indicazioni CEI.

13.00 Pranzo

15.00 – 16.00: Prof. Sergio Cicatelli.

“Profili degli studenti e competenze prodotte dall’IRC”.

16.30 – 17.00:  Intervallo

17.00 – 17.45: Prof. Wierzbicki Miroslaw.

Competenza nel contesto europeo.

17.45- 18.30:  Prof. Corrado Pastore.

La competenza nell’IRC e l’uso delle fonti bibliche.

 

Domenica 25 marzo

9.00                  Lodi

9.15 – 10 30:  Prof. Zelindo Trenti.

Il linguaggio religioso alla  base della competenza professionale.

11.00- 12.20:  Prof. Roberto Romio.

Traguardi di sviluppo e profili nell’apprendimento: Dimensione didattico-

sperimentale   della competenza.

12.30                Conclusioni e Quadro delle iniziative dell’Istituto.

 

Note

L’Incontro è organizzato ai sensi delle Direttive Ministeriali n. 305 (art. 2 comma 7) del 1 luglio 1996,  n. 156 (art. 1 comma 2) del 26 marzo 1998.

Ai sensi dell’art. 14 comma 1, 2 e 7 del CCNL, rientra nelle iniziative di formazione e aggiornamento progettate e realizzate dalle Agenzie di Formazione riconosciute dal MIUR.

Ai partecipanti sarà rilasciato un attestato di partecipazione.



Note organizzative

 

È richiesta una quota di partecipazione di 55 Euro che può essere versata

Su conto corrente postale N. 99941007 intestato al Pontificio Ateneo Salesiano, Piazza Ateneo Salesiano, 1 – 00139 ROMA

Sul conto corrente Banca Popolare di Sondrio – Piazza Filattiera, 24 – 00139 ROMA intestato al Pontificio Ateneo Salesiano

IBAN: IT62 WO56 9603 2190 0000 1000 X18

(indicare con precisione il nome della/delle persone cui esso si riferisce e la causale del versamento: iscrizione Convegno IdR 24-25 marzo 2012)

Direttamente presso la Segreteria dell’Istituto di Catechetica all’atto dell’iscrizione.

Le iscrizioni al Corso devono pervenire via Fax o Mail entro il 28 febbraio 2012 alla Segreteria dell’Istituto di Catechetica, mediante

  • invio della scheda di iscrizione unitamente alla ricevuta comprovante il versamento della quota di iscrizione (55 Euro)
  • direttamente presso la Segreteria dell’Istituto di Catechetica all’Università Salesiana nei termini indicati
Soggiorno

È possibile ricevere ospitalità presso l’Istituto Salesiano S. Cuore (sede del Convegno), in Via Marsala 42, nei pressi della Stazione Termini.

Si dispone di circa 80 posti fra camere singole e multiple. Le camere singole sono in numero

limitato, perciò l’invito è di scegliere più possibile la sistemazione in camera multipla, indicando eventualmente il compagno/a di camera.

I prezzi sono i seguenti:

–          45 Euro a notte in camera singola

–          40 Euro a notte in camera doppia

–          35 Euro a notte in camera tripla

–          10 Euro ogni singolo pasto per coloro che pernottano

–          15 Euro ogni singolo pasto per coloro che non pernottano.

Nota Importante

Le camere e i pasti si devono prenotare direttamente presso l’ufficio Ospitalità dell’Istituto Sacro Cuore entro e non oltre il 23 febbraio 2012. Anche il pagamento deve essere realizzato presso Il Sacro Cuore.

Mail: sacrocuoreosp@tiscali.it

Tel. 06 49.27.22.88

Fax: 06 – 44.63.352

 

 

Iscrizioni e informazioni

Segreteria Istituto di Catechetica

Università Pontificia Salesiana

Piazza Ateneo Salesiano, 1

00139 ROMA

Tel 06 87290.651; 06 87290808

Fax 06 87290.354

e-mail: catechetica@unisal.it

orario di ufficio:

8-12 Martedì e Giovedì

 

 

SCHEDA DI ISCRIZIONE

 

 

COGNOME  e Nome________________________

 

Nato a______________________il____________

 

Indirizzo_________________________________

 

Tel. + e-mail

 

Grado Scolastico ………………………………

 

Sacerdote       religioso/a       laico  

 

        ha versato la quota di iscrizione di 55  Euro sul ccp 99941007 intestato al Pontificio Ateneo Salesiano, Piazza Ateneo Salesiano, 1 – 00139 ROMA

(indicare con precisione il nome della/delle persone cui esso si riferisce e la causale del versamento: iscrizione Convegno IdR 23-25 marzo 2008)

Sul conto corrente Banca Popolare di Sondrio – Piazza Filattiera, 24 – 00139 ROMA intestato al Pontificio Ateneo Salesiano: IBAN: IT62 WO56 9603 2190 0000 1000 X18

 

firma

 

data

Festa della Santa Famiglia (anno B)

SANTA  FAMIGLIA

Lectio – Anno B

Prima lettura: Genesi 15,1-6; 21,1-3

 

In quei giorni, fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede».  Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza».  Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.  Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito.

 

La prima lettura mostra come già l’AT aveva preparato una mentalità che il Vangelo ha poi sviluppato al massimo: i figli sono dono di Dio. Di conseguenza, i genitori devono conservare viva la coscienza che non sono loro proprietà, ma li hanno «in gestione». La vicenda di Gesù, dono di Dio a Maria per opera dello Spirito Santo e affidato alle cure di Giuseppe, ha un suo prologo nella storia di Abramo ed Isacco. Costui nasce in modo insolito, fuori cioè dalle normali leggi biologiche (Abramo e Sara sono anziani) e apparterrà a Dio in modo peculiare, quasi sottratto al padre che dovrà essere pronto a «restituirlo» a Dio, quando e come Egli vorrà. L’episodio del cap. 22, chiamato spesso Il sacrificio di Isacco, è prima di tutto il riconoscimento del primato di Dio: la vita è suo dono e gli appartiene, sempre e comunque. Sia Abramo, sia Isacco, sono pronti a riconoscere tale primato divino.

La prima lettura si colloca in questo contesto, anche se il suo raggio di azione è limitato a due punti: il credito dato da Abramo alla promessa divina, secondo cui un suo diretto erede sarà il primo anello di una lunga discendenza (15,1-6), e, secondo punto, la nascita di Isacco che conferma la validità della promessa (21,1-3). Il brano liturgico, composto dai due spezzoni appena individuati, si colora teologicamente, soprattutto dopo aver conosciuto la storia di Gesù.

La prima parte ribadisce da parte di Dio l’impegno, precedentemente preso (cf. Gn 12,2.7; 13,14-17), di assicurare al patriarca Abramo una numerosa discendenza. Data l’età di Abramo e della moglie, non è umanamente ipotizzabile un discendente diretto e si pensa quindi ad una linea «laterale». Dio corregge l’interpretazione di Abramo, troppo umana, e garantisce uno del suo sangue.

Dio è sempre al superlativo: la vita di cui lui è la fonte, sgorgherà in modo abbondante, affidata alla suggestiva immagine di una discendenza più numerosa delle stelle del cielo (cf. v. 5). Noi oggi siamo in grado di azzardare dei numeri, ovviamente molto approssimativi: nella nostra galassia sono presenti non meno di cento miliardi di stelle; nel firmamento, poi, sono presenti milioni di galassie… i numeri diventano veramente «astronomici». Ad occhio nudo, in buone condizioni, si arriva a contare circa seimila stelle… Gli antichi non erano informati come noi, usavano però l’espressione per indicare una quantità incommensurabile. La metafora, letta dalla prospettiva di Abramo, intende dire la quantità smisurata della sua discendenza, letta dalla prospettiva di Dio, lo rende veramente «signore della vita».

Abramo non dubita della promessa, non avanza sospetti o riserve. La sua incondizionata accoglienza, gli diventa titolo di credito per un rapporto preferenziale con Dio. È, in parte, quanto significa l’enigmatico, ma sostanzioso, detto del v. 6: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia». Paolo lo renderà il cuore della sua dottrina sulla giustificazione, com’è dato vedere in Gal 3,6 e soprattutto in Rm 4,3.

La seconda parte mostra la realizzazione della promessa divina. La Parola di Dio produce quanto annuncia, esattamente come la parola creatrice di Genesi, 1. L’espressione «Il Signore visitò Sarà» ribadisce, semmai sussistessero delle perplessità, che la nascita di Isacco è dono di Dio. A maggior ragione, Isacco gli appartiene. Lo si capirà meglio nella storia che segue, quando Dio avanzerà delle pretese che umanamente parlando, risultano illogiche e assurde. Ma anche in quel caso, a trionfare, sarà il concetto di un Dio, Signore della vita.

 

Seconda lettura: Ebrei 11,8.11-12.17-19

 

Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.

Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

Un ulteriore apporto al tema familiare viene dalla Lettera agli Ebrei che al cap. 11 offre una lunga meditazione sulla fede, passando in rassegna quadri e personaggi della storia di Israele. È la fede l’elemento che determina l’essere e l’agire del vero fedele, prendendolo e penetrandolo tutto quanto.

Il nostro brano isola le due figure di Abramo e Sara, una coppia di sposi, chiamata a generare in modo del tutto speciale. Questo tema è stato scelto, perché, ovviamente, si iscrive bene nella festa liturgica odierna. È altresì una nuova, complementare visione, della tematica trattata nelle letture precedenti. Così i testi liturgici rispondono ad un tema organico ed unitario.

Si parte dalla chiamata di Abramo, elemento primitivo e fondante, che mostra un uomo disposto ad andare dove Dio vuole, ignaro della meta (v. 8). Poi il discorso si fa più preciso, parlando di Abramo e Sara come genitori: lo sono non per legge naturale, ma in base alla promessa divina, che permette una realizzazione superlativa: essi stanno all’origine di una moltitudine incommensurabile (vv. 11-12). È come riconoscere, che Dio è sempre «esagerato», mai uno «dalle mezze misure». Quando da lui sprizza la vita, questa diventa sorgente che zampilla in continuazione.

La vita di Isacco, sorta improvvisamente dalla misericordia di Dio, è chiesta da Dio stesso (vv. 17-19). Per due volte si dice che «Abramo offrì» la vita del figlio, per sottolineare la disponibilità del genitore a riconoscere la vera «paternità» di Isacco, quella divina. Potremmo azzardare il verbo «restituire»: Abramo è cosciente di non poter possedere il figlio Isacco come si possiede un oggetto, e quindi non ne vuole disporre a piacimento. Nel verbo «offrì» leggiamo tutta la disponibilità di Abramo a riconoscere la suprema e sovrana volontà divina.

L’anonimo Autore della Lettera fa compiere un progresso interpretativo al racconto di Gn 22, perché aggiunge, parlando di Abramo: «Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo» (v. 19). Il testo biblico di Genesi è molto più laconico e non individua né, tanto meno, esplicita i sentimenti di Abramo. L’Autore di Ebrei, invece, nel suo contesto di presentazione della fede, non trova strano attribuire al patriarca tale convinzione, evidentemente evincendola dal suo atteggiamento di fede incondizionata, che lo porta a seguire in tutto la volontà divina, anche quando l’intelligenza umana o il comune buon senso suggerirebbero il contrario.

Così facendo, Abramo dimostra di non esercitare alcun possesso nei confronti del figlio, e, positivamente, di rispettare al massimo la volontà divina, anche quando il fiat può costare sangue che gronda dal cuore ferito di padre. Davvero una fede genuina, scintillante, che realizza quanto l’Autore aveva espresso all’inizio del capitolo: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza» (11,1-2)

 

Vangelo: Luca 2,22-40


Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.

Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.

Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

 

Esegesi

Nel contesto del Vangelo dell’infanzia, Luca ci regala questo stupendo quadro familiare: Giuseppe, Maria e Gesù. La cronaca di un fatto si riveste di smagliante colore teologico che impreziosisce e conferisce il massimo splendore all’evento. È l’occasione per parlare di Gesù che viene presentato al tempio. È lui il vero protagonista di questi fatti.

Egli è il centro letterario e teologico. Letterario perché un esplicito riferimento a Lui apre e chiude il brano: «Portarono il bambino a Gerusalemme» (v. 22); «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (v. 40). Ma è anche il centro teologico, già emerso nelle due citazioni appena riportate: Egli è per la prima volta a Gerusalemme, la città che sarà, più tardi, testimone della sua morte e risurrezione. Inoltre, la conclusione allude alla sua pienezza di sapienza, nonché alla grazia con la quale egli mostra un’affinità singolare. E «grazia» richiama, lo sappiamo, un dono divino, anzi, qualcosa di esclusivamente divino.

All’inizio è ricordata la legge sui primogeniti: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» (v. 23: cf. Es 13,2.11). Siamo rimandati all’intervento liberatorio di Dio in Egitto al tempo dell’esodo. I primogeniti, a perenne riconoscenza di tale liberazione, diventavano come proprietà di Dio. Detto in linguaggio più teologico, gli erano consacrati. Per poter riappropriarsi del figlio, i genitori compivano un gesto ricco di simbolismo, offrendo qualcosa a Dio in cambio del figlio che riportavano a casa. L’offerta di Gesù era il primo atto che i genitori dovevano compiere. Doveva seguire il secondo, il riscatto, come prescrive Es 13,13. Questo non avviene o, per essere più precisi, non è detto esplicitamente dal testo.

Possiamo tentare di capire la portata teologica del fatto. Gesù, portato al tempio e qui consacrato a Dio, non può essere riscattato, perché è e rimane reale «proprietà» di Dio e non potrà mai essere proprietà dei suoi genitori. L’episodio di Gesù dodicenne che si ferma al tempio, dimostra che là Gesù si trova bene, a suo agio, nella casa di «suo padre».

D’altra parte, come poteva Luca presentare come riscatto (= redento) colui che è il Redentore (cf. v. 32) di Israele e che era venuto per «riscattare coloro che erano sotto la legge» (Gal 4,5)? Qui è il Gesù pasquale, morto e risorto, che emerge tra le righe. Se Gesù si sottomette in parte alla legislazione ebraica di cui è figlio, mostra anche di essere Signore della medesima.

Gesù non compie l’offerta di se stesso perché è piccolo e perciò sono necessari i genitori. Tale offerta la farà da sé, da adulto, sulla croce. Nel frattempo sono i genitori, nel ruolo di ministri, di vicari, a compiere tale gesto.

Simeone e Anna aiutano a penetrare nella comprensione profonda dell’evento. Le parole esplicite del primo e quelle implicite di Anna garantiscono al racconto un succoso significato teologico.

L’incontro con Simeone è registrato nei vv. 25-35. I pittori pongono di solito Simeone al centro della composizione e lo rappresentano, vecchio, nell’atto di offrire il bambino. Il testo evangelico non dice però che fu Simeone ad offrire il bambino, ma solo che «lo accolse tra le braccia» (v. 28). Chi presentò il bambino furono i genitori, come Luca mette ben in evidenza: «portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore» (v. 23). Simeone c’è, ma non è indispensabile per il fatto, sarà invece molto utile per il significato. Saranno le sue parole, in parte enigmatiche, a colorire in modo pasquale l’avvenimento.

Nell’abituale traduzione «Ora puoi lasciare» sembra quasi che Simeone chieda qualcosa. In realtà il verbo greco è all’indicativo e va quindi tradotto «ora tu stai sciogliendo». Nelle sue parole si coglie la gioia di aver contemplato una gloria che è destinata a tutti. È già un’anticipazione della pienezza cristiana dopo la risurrezione. Infatti il discorso di Simeone ha sempre come centro Gesù, chiamato «salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». L’idea di salvezza e la prospettiva universale (tutti i popoli, le genti) non può che fare riferimento al mistero pasquale, al momento in cui tutti gli uomini indistintamente sono compresi nell’amore redentivo di Gesù.

Simeone con le sue parole profetiche sa cogliere la portata teologica, pasquale, del gesto. Così Maria e Giuseppe sono aiutati a entrare nel mistero di Gesù. Per questo il sentimento che li accompagna è la meraviglia per quello che si dice del bambino (cf. v. 33).

Infine compare anche Anna, una profetessa (vv. 36-38). Di lei l’evangelista offre alcuni particolari circa l’età, la sua condizione e soprattutto la sua presentazione di donna di fede che sa scorgere nel bambino molto più di quello che la vista permette. Infatti ella «si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (v. 38). Il termine «redenzione» (lytrosis) potrebbe suonare come semplice riscatto dalla schiavitù o dall’oppressione dello straniero, soprattutto nel contesto di una lettura veterotestamentaria (cf. l’uso del verbo sulla bocca dei discepoli di Emmaus, ancora irretiti in una logica nazionalista, Lc 24,21). Ma in contesto cristiano, la redenzione rimanda all’opera di Cristo morto per i peccati degli uomini. È un raggio di luce pasquale che si infila e trasfigura il significato.

Un’ulteriore conferma della lettura pasquale di questo brano viene dal riferimento di Simeone a Maria: Ella sarà attraversata dalla spada di dolore che è partecipazione alla passione del figlio. È Lui la persona determinante, colui che è causa di «caduta e la risurrezione» (v. 34). La madre che lo ha generato le sarà vicina sempre, anche nel momento del più buio dolore. Per questo potrà essere a pieno titolo Madre, Redemptoris Mater, madre del Cristo pasquale, cioè, quello morto e risorto per i peccati di tutti gli uomini.

Alla fine, la santa famiglia ritorna in Galilea, a Nazaret, quasi a riprendere i ruoli quotidiani, dopo l’esaltante esperienza nella città santa (vv. 39-40). Un misto di normalità e di straordinario conclude l’episodio. Gesù ritorna a Nazaret con Maria e Giuseppe, dopo aver ottemperato i dettami della Legge del Signore. C’è una fedeltà alla legge divina che vale come espressione di un’attenzione «scrupolosa» alla volontà divina. La crescita è umana e divina, grazie a quello sviluppo che interessa il corpo e lo spirito. Potremmo dire che Luca adotta un criterio di «straordinaria normalità» per parlare di Gesù. Non il miracolo facile, talora perfino «sciocco», dei testi apocrifi, non le manifestazioni di un enfant prodige, ma una normalità esteriore, con tocchi di straordinarietà interiore, è il messaggio sostanzioso che Luca lascia al lettore.

La santa famiglia è tutta qui: un rispetto reciproco, ognuno al proprio posto, nello svolgimento fedele del proprio ruolo, realizzando la propria vocazione e obbedendo nel massimo grado alla volontà divina.

 

Meditazione

Nel mistero dell’incarnazione il Figlio di Dio assume realmente la condizione umana, condividendone i ritmi di crescita nell’ordinarietà di una vita familiare, in una nascosta e poco rinomata borgata della Galilea: «Fecero ritorno … alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (Lc 1,39-40). Oltre a farsi obbediente alle dinamiche umane, Gesù entra nell’obbedienza alla Legge e alla tradizione religiosa del suo popolo. Maria e Giuseppe fanno tutto secondo la Legge di Mosè, come Luca ricorda con insistenza più volte (vv. 22.23.24.27.39).

La Legge è data da Dio perché il popolo possa custodire il dono dell’Alleanza. Osservando i suoi precetti, Israele cammina in quella libertà che Dio gli ha gratuitamente donato attraverso l’Esodo. L’atteggiamento del cuore che consente di vivere bene il rapporto con la Legge è la fede: attraverso l’obbedienza ai comandamenti il popolo di Dio non deve presumere di potersi salvare da solo, in forza della propria osservanza, ma può giungere a conoscere e a rimanere in una relazione fedele con Colui che lo ha liberato e continuerà a farlo.

La liturgia della Parola in questa festa insiste anzitutto nel mostrarci la fede di Abramo, al centro tanto della prima quanto della seconda lettura. Abramo crede e Dio glielo accredita come giustizia (cfr. Gen 15,6). È questa la prima volta che nella Genesi si parla della fede di Abramo. Finora egli ha ascoltato la parola di Dio, le ha obbedito, ora il suo cammino giunge a una nuova tappa: perviene a credere al Signore, o meglio, come si dovrebbe tradurre, «nel Signore». Abramo in questo momento accetta di camminare non solo verso una terra, ma verso un incontro personale con il Signore, un andare in lui. Entra nella relazione misteriosa con qualcuno che lo chiama, gli parla, lo guida, per poi dirgli: non devi avere altra garanzia che me, non devi avere altro desiderio che me, o meglio, potrai desiderare ogni altra cosa – una terra, un figlio, un erede – ma «in me». Abramo deve credere lasciandosi condurre fuori, nella notte, perché solo in questo modo potrà fare l’esperienza sorprendente di un cielo stellato che debolmente illumina le tenebre e permette un orientamento persino nel buio dell’incertezza. Solo chi sa rimanere nella notte può percepire la bellezza e la consolazione di un cielo stellato, offerto come segno della promessa di Dio. Abramo tuttavia non può contare le stelle: dovrà fidarsi del segno senza poterlo dominare o farne un suo possesso.

La lettera agli Ebrei ci ricorda fin dove giunge questa fede di Abramo: «Messo alla prova, offrì Isacco… il suo unigenito figlio… Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo» (Eb 11,17-19). Nel momento in cui non lo trattiene per sé, come sua proprietà, ma lo ridona a Dio, davvero Abramo accoglie Isacco come dono, simbolo di quell’alleanza fedele e di quella promessa di Dio che lo vuole rendere non solo padre di Isacco, ma di una moltitudine incalcolabile di credenti. Abramo diviene ora padre nella fede e dalla sua discendenza nascerà Gesù, il vero Isacco di Dio, in cui tutte le promesse si compiono e la definitiva alleanza viene stipulata.      Offrendo il loro «maschio primogenito» al Signore nel tempio di Gerusalemme, Maria e Giuseppe non solo obbediscono alla Legge, ma più profondamente accolgono la stessa logica di Abramo, che è la logica della vera fede. Quello che anche per loro è stato il dono gratuito di Dio, anzi il dono per eccellenza – il dono che il Padre stesso fa del proprio Figlio unigenito – non lo trattengono per sé, lo ridonano al Signore, e in questo modo lo consegnano agli uomini tutti che attendono la salvezza. Luca nell’evangelo la definisce con i nomi tipici della tradizione biblica: «La consolazione di Israele» (v. 25) e la «redenzione di Gerusalemme» (v. 38). Il vecchio Simeone e la profetessa Anna sono i rappresentanti di questa umanità che attende consolazione, redenzione, salvezza e nella fede sa riconoscerla in questo neonato, condotto al tempio anch’egli sulle braccia della fede dei suoi genitori.

Insieme alla fede di Giuseppe e di Maria, di Simeone e di Anna, il racconto evangelico sottolinea la docilità allo Spirito Santo. Lo Spirito suscita il desiderio e sostiene l’attesa. Sia Simeone sia Anna sono anziani, al tramonto della loro vita, eppure sono rimasti abbastanza giovani da attendere ancora. Nella loro vita niente è stato tanto bello da riempirla completamente così da impedire loro di attendere; d’altra parte nulla è stato così doloroso da impedire di continuare a sperare. Hanno vissuto non accontentandosi di niente di meno del Signore e della sua consolazione.

In secondo luogo, lo Spirito aveva preannunciato a Simeone «che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore» (v. 26). Egli ha sempre creduto che la sua vita era stata fatta per essere salvata. Per lui la vita e la fede coincidono. Vivere significa vedere la salvezza del Signore. Non meno di questo. Allora tutta l’esistenza acquista senso se viene giocata in questa attesa. Perché non attendere la salvezza equivale a morire. Al contrario, vedere la salvezza non conduce alla morte, ma nella pace. Credere significa anche questo: sapere che nonostante tutte le difficoltà della vita, persino se, come accade ad Anna, ti muore un marito quando ti sei appena affacciata all’amore, nonostante tutto la vita è fatta per essere salvata. È fatta per vedere Dio. Null’altro che sia meno di Dio ne potrà placare il gemito o colmare la sete.

In questa festa la parola di Dio ci ricorda in questo modo almeno due tratti, tra molti altri, che possono rendere una famiglia luogo in cui crescere tutti, genitori e figli, nella sapienza e nella grazia: la fede che nutre l’attesa, la docilità allo Spirito che ne riconosce i segni.

 

Preghiere e Racconti

 

La santa Famiglia

Al centro di questa icona. Gesù è al tempo stesso punto focale e motivo di unione tra Maria e Giuseppe. Egli, seduto su un trono regale, è rivestito dell’abito che rivela la sua onnipotente e mite regalità; con un gesto ampio e carico di dolcezza, benedice i genitori e noi che contempliamo l’icona.

Sul capo del Figlio scende un raggio con la simbologia delle altre due Persone della divina Trinità: del Padre, a cui allude la mano creatrice, e dello Spirito Santo, nel simbolo della bianca colomba. Con il gesto indicativo delle mani, Maria e Giuseppe mostrano e porgono alla nostra fede la pienezza del Mistero della Santissima Trinità che dimora nella loro vita. Tale Mistero, che riempie e che dona armonia alla vita, è qui unito da un raggio di luce che raffigura il legame d’amore che ogni famiglia tenta di esprimere nell’umile quotidianità della vita e che la santa Famiglia di Nazaret ha vissuto in maniera compiuta.

 

E tu,

Madre,

cui era stata predetta una spada nell’anima,

ogni giorno trepidante

segui la vita di un figlio che non è tuo…

Non sono nostri i figli,

Maria!

Sono i figli e le figlie della vita.

Hanno un percorso da compiere,

una gioia da realizzare,

un amore da costruire.

Come frecce scoccate lontano

i nostri figli se ne vanno…

Custodiscili tu,

o Madre,

e prega

per tutti i figli e le figlie dell’umanità

lacerata da discordie

e violenze.

Consola il nostro cuore,

come il tuo attraversato da una spada,

e sia data a tutti

benedizione e pace.


Lo stupore del Natale di Cristo

Da duemila anni, credenti, atei, santi o peccatori, ci volgiamo all’umile giaciglio su cui riposa quel Bimbo, circondato dall’affetto premuroso di Maria e di Giuseppe e riscaldato da povera paglia, dal calore del bue e dell’asinello. Il mondo si ferma, almeno per qualche istante, e trattiene il respiro dinanzi al mistero del Presepe. Ma poi riprende il suo abituale cammino, la sua danza, la sua triste “via crucis” quotidiana. La cronaca non risparmia, neppure il 25 dicembre, violenza, conflitti e tensioni. Alla fragile tregua di un momento, subentra la realtà fatta di mille incertezze, di piccole o grandi angosce e dei soliti problemi, personali o sociali, da affrontare ogni giorno.

Noi, devoti di Maria Santissima, non possiamo accontentarci appena di una tappa fugace a Betlemme. Dalla Madre del Signore vorremmo piuttosto imparare a sostare lungamente, con il cuore, e trattenerci in adorazione dinanzi al miracolo di Gesù, vivo e presente in mezzo a noi. Non perché siamo “i primi della classe”. Anzi, proprio perché, immancabilmente, ci troviamo ancora tanto indietro, nelle retrovie – consci delle miserie che ci devastano e delle insufficienze che ci opprimono – vogliamo fermarci a pregare, a meditare, a contemplare quella povera mangiatoia, altare e trono per il Re dei Re, anticipo di quella Gloria che poi rifulgerà per sempre sulla Croce. Vogliamo, ancora una volta, apprendere la lezione della infinita tenerezza di Dio per l’uomo, della misericordia che si fa carne e della maestà eccelsa che saprà abbassarsi fino alla umiliazione del Golgota. Desideriamo lasciarci attraversare da quella grazia che, sola, ridona speranza e conforta, e infonde l’infantile entusiasmo di ripartire, ridando gusto e sapore alla vita.

Il vero Tempio, lo sappiamo, è Cristo stesso, la sua umanità, unico e autentico Santuario, ricolmo dello splendore della sua Divinità. Ma è anche il nostro cuore: il Signore cerca e predilige tale umilissima dimora. Lui, che il Cielo e l’Universo intero non possono contenere, proprio lì vuole penetrare, con la luce e con la forza del suo Amore. La “Terra Santa” è il nostro spirito, dove Dio eleva la sua tenda. Anche noi, allora, per vivere lo stupore del Natale, abbiamo da scacciare dal nostro Tempio ogni giorno qualcosa: la folla di pensieri inutili e di suggestioni, che distraggono e confondono, allontanandoci da Dio e rendendoci sempre più schiavi delle creature; l’egoismo, l’attaccamento a noi stessi, l’infedeltà, l’orgoglio, l’ipocrisia, l’impurità, la maldicenza. Quante terribili radici vanno strappate ancora; quanti ospiti indesiderati occorre spingere fuori, per liberare il campo e restituire, ai suoi “legittimi proprietari”, la nostra Casa! Abbiamo il dovere di custodirla e di adornarla con le opere buone “che dobbiamo e vogliamo fare”, come suggeriva il catechismo; abbiamo la responsabilità di renderla sempre più gradita al Signore e amabile agli occhi degli uomini.

Anche in questa epoca, devastata, sazia, incerta, ricca e disperata, il Regno di Dio continua a operare. Quel celeste Bambino sorride, anche oggi, nel cuore di chi vive nella sua Grazia. Dal Cielo continua a intercedere per noi presso il Padre ed effonde i suoi favori: come fece a Fatima, visibilmente, il 13 di ottobre del lontano 1917, quando la Sacra Famiglia levò la mano benedicente sul mondo.

San Paolo, nella lettera ai Galati (4,21 ss), parla di due donne, una schiava e l’altra libera. Di chi vogliamo essere figli? Paradossalmente, possiamo scegliere la nostra ascendenza, risalire ai nostri genitori. Figli della schiava, oppure della libera, cioè della Chiesa dei Santi e dei Martiri, degli educatori, dei missionari del Vangelo, degli eroi della carità. Di peccatori, certo, ma fiduciosamente aperti alla Grazia, che oggi ancora ci è data.

Come è bella la Chiesa, quando è una vera “Casa di preghiera”! Come è bella la Chiesa, nel maestoso silenzio di arcate millenarie o nella multiforme assemblea che si raduna in festa, per celebrare i misteri della vita, della morte e della gloria del suo Signore! Come è bella la Chiesa, famiglia dei credenti, che professano la loro fede e sanno portare ancora al mondo la “santa poesia” del Natale e la luce del Cristo Risorto!

La nostra vera gloria è la povertà e la essenzialità di Betlemme, l’umiltà e il silenzio di Nazaret, il solenne trionfo della Croce. La vera gloria sono le nostre pene, offerte con amore; è la fatica di pregare, quando incombono lo scoraggiamento, la tiepidezza e la stanchezza. La vera gloria è la fatica di perdonare; la vera regalità è il dominio di se stessi, è servizio, è pazienza, è mitezza, è misericordia. Sia tutto questo – e tanto di più ancora – il Santo Natale del 2011.

Sia questo l’augurio più bello, sgorgato dal cuore in festa, perché abitato dalla Grazia. Sia questo il cammino che prosegue, ogni giorno, con fatica ma con santa pazienza e con cristiana speranza, sorretto dalla “compagnia” della Chiesa, dalla intercessione dei Santi, verso la Gerusalemme del Cielo.

(Tratto da Maria di Fatima, mensile del Movimento Famiglia del Cuore Immacolato di Maria).

 

La presentazione al Tempio

Certo le porte al vostro incedere

si sono aperte vibrando da sole

e strana luce si accese sugli archi:

il tempio stesso pareva più grande!

 

Quando si mise a cantare il vegliardo,

a salutare felice la vita,

la lunga vita che ardeva in attesa;

e anche la donna più annosa cantava!

 

Erano l’anima stessa di Sion

del giusto Israele mai stanco di attendere.

E lui beato che ha visto la luce

se pure in lotta già contro le tenebre.

 

Oh, le parole che disse, o Madre,

solo a te il profeta le disse!

Così ti chiese il cielo impaziente

pure la gioia di essergli madre.

 

Nemmeno tu puoi svelare, Maria,

cosa portavi nel puro tuo grembo:

or la Scrittura comincia a svelarsi

e a prender forma la storia del mondo.

(David Maria Turoldo)

 

 

I vostri figli

I vostri figli non sono i vostri figli.

Essi sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di se stessa.

Essi arrivano grazie a voi, ma non da voi, e sebbene siano con voi, non vi appartengono affatto.

Potete donare loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri.

Perché essi posseggono i loro pensieri.

Potete dare una casa ai loro corpi ma non alle loro anime, perché le loro anime hanno dimora nella casa del domani, che voi nemmeno in sogno potete visitare.

Potete sforzarvi di farvi simili a loro, ma non pretendete di renderli simili a voi.

Poiché la vita non va all’indietro né indugia su ciò che è stato.

(Kahlil Gibran)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

– T. BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

 

Natale del Signore (Anno B)

NATALE DEL SIGNORE

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 52,7-10

 

Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme,  perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

 

v Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno. Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza. È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli. Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui. Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.

Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore. Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.

 

Seconda lettura: Ebrei 1,1-6

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».

 

v Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei. Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».

Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui». C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.

Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli». L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.

All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata. In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa. Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.

 

Vangelo: Giovanni 1,1-18

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

 

Il Vangelo in immagini

NATALE DEL SIGNORE ANNO B

 

Esegesi

Quante volte può capitare che una notizia buona renda «bella» anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine un po’ ardita, ai piedi «belli» di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca. È un messaggio lieto, che augura il bene della salvezza, che consiste nel fatto che Dio regna. Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati e reagiscono con gioia espressa da alte grida. L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato ap-pello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Il ritorno di Dio produce il cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza la prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro; Dio, infatti, dimostra di essere dalla parte del suo popolo liberandolo dai suoi nemici.

Le parole del profeta fanno da introduzione allo stupendo prologo giovanneo, dove troviamo un araldo d’eccezione quale Giovanni il Battista, qualificato come «testimone»: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce» (Gv 1,6-8). Il Battista, quindi, rende noto che il «ritorno» di Dio è ormai realizzato, al punto da fargli gridare: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me» (Gv 1,15). Si tratta di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che era anche prima di nascere tra gli uomini. Egli è colui che il vangelo di Giovanni definisce Verbo, poi vita e luce; Egli è colui che, pur essendo Dio come suo Padre, s’incarna e diventa essere umano per meglio servire l’umanità. La gioia di cui parla il Deutoroisaia è sostituita qui dallo splendore della luce e dall’abbondanza della vita. Eppure, realisticamente, si annuncia: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta […].Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto» (Gv 1,4-5.10-11).

Dal Verbo scaturisce per noi ciò che l’umanità, seppur a tentoni, ha sempre tentato di conoscere, ossia Dio, che non è stato mai visto da nessuno, in quanto soltanto il suo Figlio unigenito, che ha con Lui un’intimità perfetta (1,18: «che è Dio ed è nel seno del Padre»), ce l’ha potuto rivelare. Il mistero del Natale, dunque, ci invita a prendere coscienza di tutta questa grandezza, che nemmeno i profeti avevano potuto immaginare. La presenza in mezzo a noi dell’erede di Dio Padre, Gesù Cristo, «Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,3), è un evento così sconvolgente quanto desiderato da rendere  difficile il parlarne e da far sentire inadeguato chi vuole accoglierlo.

Perciò, circondati dalla luce, sostenuti dal Verbo, potenziati dalla vita comunicataci da Gesù non ci rimane che arrenderci al Dio che viene a visitarci e a guarire le nostre ferite.

 

Meditazione

La luce giunge ora, nella terza Messa di Natale, a illuminare il giorno pieno. «Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia…Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio» (Sal 97,2.3). Tutto questo perché «si è ricordato del suo amore», canta ancora il salmo responsoriale. Quello che gli occhi delle genti e i confini della terra contemplano è proprio la luminosità di questo amore. Anche il profeta Isaia, nella prima lettura, insiste nell’annunciare una salvezza che tutti i confini della terra vedranno. Le sentinelle scrutano con i loro occhi il ritorno del Signore a Sion, le orecchie ascoltano le buone notizie del messaggero che annuncia la pace e la salvezza (cfr. Is 52,5-7.10). Dio, in questi giorni che sono gli ultimi, parla a noi per mezzo del Figlio (cfr. Eb 1,2). La luce splende nelle tenebre, che non riescono a vincerla anche quando non vogliono accoglierla; per questo noi possiamo contemplare, nel Verbo che si fa carne e pianta la sua tenda in mezzo a noi, la «gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Anche Colui che i nostri occhi non possono vedere, quel Dio che nessuno ha mai visto, ora il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui ce lo racconta! Ogni uomo viene illuminato dalla luce vera che viene nel mondo. Questa luce non solo ci è donata affinché la contempliamo o ci lasciamo da essa illuminare; più radicalmente essa ci trasforma, rendendoci a nostra volta luminosi. Giovanni non è la luce, ma viene come testimone della luce, perché, credendo attraverso la sua testimonianza, noi possiamo diventare figli di Dio, partecipando del suo stesso essere luce. Il Battista rende testimonianza alla luce nel suo farsi luminoso, perché si lascia raggiungere e trasformare dalla luce del Logos.

Ora siamo davvero nel giorno pieno e tutto nella liturgia della Parola torna a sottolineare ciò che può essere visto, udito, contemplato. Potremmo ripetere, con le parole di Giovanni nella prima lettera, «quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo a voi, perché siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,1-4). Siamo davvero nel giorno pieno, non solo perché la luce risplende, ma perché tutto in noi – vista, udito, tatto, cuore – è reso capace di riconoscere e gustare la sua presenza. Tutto diviene possibilità di comunione, con il mistero di Dio e tra di noi. Tutto diviene vita piena, gioia compiuta, annuncio credibile, testimonianza efficace.

Senza entrare nel dibattito su chi sia l’autore del vangelo e della prima lettera di Giovanni, se si tratti dello stesso scrittore o meno, certamente c’è una grande affinità tra i due prologhi con cui si aprono entrambi gli scritti. Un prologo rappresenta certo, secondo le regole retoriche, un momento delicato e decisivo attraverso cui un autore stabilisce un rapporto vivo ed efficace con il suo lettore. Rappresenta anche, nello stesso tempo, la difficoltà di un inizio. La parola deve trovare i modi migliori per esprimersi e incominciare a raccontare. Leggendo il vangelo di Giovanni, ma anche la prima lettera, si ha come l’impressione che l’autore lasci da parte la sua parola per consentire l’irrompere della Parola; lasci da parte ogni preoccupazione su come iniziare, per consentire all’inizio di ogni inizio, a ciò che è «in principio», di rivelarsi e di essere davvero all’origine di ogni altra parola, di ogni altra esperienza, di ogni altra vita, che trova soltanto in Lui la sua origine e la sua consistenza. È come se l’autore, più che iniziare a raccontare, volesse concedere a Colui che è al principio di raccontarsi, di raccontare il Padre, di raccontare la verità di ogni uomo, chiamato in Lui alla vita eterna, a divenire figlio di Dio, a lasciarsi illuminare dalla sua gloria.

Questa dinamica, che emerge in questa esperienza di inizio di scrittura, non è vera per la vita di ogni uomo e di ogni donna? Più che preoccuparci di come vivere, non dovremmo lasciare che sia la vita in pienezza a irrompere in noi con la sua luce, con la sua potenza, che ha fatto tutto ciò che esiste, con il suo dono che ci offre il potere di diventare figli di Dio? In ogni Natale, mentre celebriamo la memoria e continuiamo a contemplare il venire della luce vera, l’abitare in mezzo a noi del Logos che si fa carne, il nascere del bambino di Nazaret, di fatto torniamo a nascere anche noi – è quel «nascere dall’altro, da acqua e da Spirito» di cui parla Gesù a Nicodemo (cfr. Gv 3,3-9) – a condizione di deporre la nostra pretesa di essere il «principio» di noi stessi per accogliere davvero il solo che è al principio della nostra vita e della nostra salvezza. Egli infatti ha voluto assumere la nostra natura umana perché noi potessimo condividere la sua vita divina, come prega la Colletta della Messa del giorno.

 

Preghiere e racconti

 

Andiamo fino a Betlemme!

Miei cari fratelli,

Vorrei essere per voi uno di quei pastori veglianti sul gregge, che la notte del primo Natale, dopo l’apparizione degli angeli, alzò la voce e disse ai compagni: «Andiamo fino a Betlemme, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori. Ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il vincastro, e scendere giù per le gole di Giudea, lungo i sentieri odorosi di stereo e profumati di menta. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l’antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori. I quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d’Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste… per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori. Ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni nelle circospezioni di infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlemme. E un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all’indietro», è l’unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall’ipoteca della morte.

Auguri, allora, miei cari fratelli.

Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quella della nostra anima sarà libero di smog privo di segni di morte e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

 

Buon Natale! Vostro

 

+ don Tonino, vescovo

 

(Antonio Bello, Oltre il futuro. Perché sia Natale, Molfetta, Luce e vita/La Meridiana, 1995, 25-27).

I pastori

Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori. Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.

Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione. Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.

Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?

 

Esulta dunque!

Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr. Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr. 1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr. Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6). […] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione. […] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre. Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr. Es 3,14). Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura. […] Ma ora sappi che Cristo è concepito. Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr. Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr. 2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.

(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi 38,4.7.17, SC 358, pp. 108-110; 114-116).

 

In principio era il Verbo

La liturgia di questa domenica ripropone il Prologo del Vangelo di san Giovanni, proclamato solennemente nel giorno di Natale. Questo mirabile testo esprime, nella forma di un inno, il mistero dell’Incarnazione, predicato dai testimoni oculari, gli Apostoli, in particolare da Giovanni, la cui festa, non a caso, si celebra il 27 dicembre. Afferma san Cromazio di Aquileia che “Giovanni era il più giovane di tutti i discepoli del Signore; il più giovane per età, ma già anziano per la fede» (Sermo II,1 De Sancto Iohanne Evangelista, CCL 9a, 101). Quando leggiamo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1), l’Evangelista – paragonato tradizionalmente ad un’aquila – si eleva al di sopra della storia umana scrutando le profondità di Dio; ma ben presto, seguendo il suo Maestro, ritorna alla dimensione terrena dicendo: “E il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Il Verbo è “una realtà vivente: un Dio che … si comunica facendosi Egli stesso Uomo» (J. Ratzinger, Teologia della liturgia, LEV 2010, 618). Infatti, attesta Giovanni, “venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). “Egli si è abbassato ad assumere l’umiltà della nostra condizione – commenta san Leone Magno – senza che ne fosse diminuita la sua maestà” (Tractatus XXI, 2, CCL 138, 86-87). Leggiamo ancora nel Prologo: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia” (Gv 1,16). “Qual è la prima grazia che abbiamo ricevuto? – si chiede sant’Agostino – È la fede”. La seconda grazia, subito aggiunge, è “la vita eterna” (Tractatus in Ioh. III, 8.9, CCL 36, 24.25).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 02.01.2011).

 

Il Verbo si è fatto carne

A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr. Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio. Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi. Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine. Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo. Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr. Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui»  (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr. Col 1,18). Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire. Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).

(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp. 302-304).

 

Oggi

viene svelato il mistero

rimasto nascosto per secoli.

Oggi il Figlio di Dio

diventa figlio dell’uomo…

Maria,

confusa e dolce,

tu guardi il Figlio,

colui che ha le fattezze del tuo volto,

volto umano di Dio,

che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.

Adori il mistero e ti abbandoni

alla sua grandezza.

Ricolmaci, o Madre,

della tua pace,

ridonaci la bellezza della grazia,

e aiutaci a farci grembo a Dio,

perché cresca in noi…

 


* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

“La teologia del Novecento”

Il libro:

Fulvio Ferrario, “La teologia del Novecento”, Carocci, Roma, 2011, pp. 304, euro 24,00.

 

È uscito quest’anno in Italia un libro sulla teologia del Novecento scritto da un teologo protestante, il valdese Fulvio Ferrario, che colpisce non solo per la rara chiarezza e ricchezza dell’esposizione e per l’efficacia narrativa, ma anche per il rilievo dato ad alcuni grandi teologi che sono, tra i non cattolici, proprio i più vicini alla visione e alla sensibilità dell’attuale papa, lui stesso teologo.

*

Il primo è Oscar Cullmann (1902-1999), nato a Strasburgo, vissuto a Basilea e ospite a Roma, negli anni del Concilio Vaticano II, della stessa facoltà teologica valdese nella quale Ferrario insegna.

Ferrario lo annovera “tra i teologi protestanti più apprezzati in campo cattolico”. Pur meno famoso di un Barth, di un Bultmann, di un Bonhoeffer, Cullmann ha lasciato un’impronta forte e durevole.

È lui che ha coniato la formula – divenuta d’uso universale – del “già e non ancora” per esprimere la dialettica tra la salvezza già realizzata da Cristo e l’attesa del compimento finale.

Ed è lui, soprattutto, che ha insistito in ogni sua opera – da “Cristo e il tempo” a “La cristologia del Nuovo Testamento” – sulla continuità tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Cullmann era prima di tutto un grande esegeta delle Sacre Scritture, ma ha sempre coniugato la ricerca filologica e storiografica alla riflessione teologica. E “nella ricerca di questo difficile equilibrio – scrive Ferrario – egli costituisce un modello, in una stagione nella quale la difficoltà di comunicazione tra le due discipline raggiunge livelli pericolosi”.

*

Un secondo grande teologo messo in primissimo piano da Ferrario è il tedesco Wolfhart Pannenberg, luterano, 83 anni.

In lui il nesso tra teologia e filosofia è strettissimo. Il Cristo crocifisso e risorto è l’evento capitale – raggiungibile anche dalla scienza storica – che consente di afferrare il senso della storia universale dell’uomo e del mondo. La rivelazione di Dio è storia; e lo smarrimento di questo orizzonte è la radice della crisi della cultura contemporanea. “È abbastanza facile notare – scrive Ferrario – le obiettive convergenze di questa impostazione con molte tesi del magistero cattolico romano”.

Non solo. Anche nella dottrina dei sacramenti e dei ministeri ordinati le riflessioni del protestante Pannenberg si avvicinano a quelle cattoliche. Ferrario sottolinea che “egli ritiene non solo possibile, ma a certe condizioni persino auspicabile, che il protestantesimo riconosca l’importanza del cosiddetto ‘ministero petrino’, cioè del papato”.

Lo stesso avviene nel campo della teologia morale:

“L’orientamento generale del pensiero di Pannenberg e la sua fiducia nelle possibilità teoriche di un’etica filosofica di derivazione aristotelica lo conducono a guardare con un marcato sospetto a molti orientamenti delle società secolarizzate in campo morale, ad esempio in materia di sessualità. In alcune occasioni egli esprime pubblicamente il proprio disaccordo nei confronti di posizioni che gli appaiono troppo ‘permissive’ delle Chiese evangeliche tedesche”.

Ma ciò non trattiene Ferrario dal concludere il profilo di Pannenberg – cioè del più “ratzingeriano” dei grandi teologi protestanti viventi – con questo altissimo apprezzamento:

“Nel contesto postmoderno, il pensiero di Pannenberg detiene un’inattualità che affascina e stimola. L’appello al rigore e alla portata universale della ragione critica, l’insistenza su una visione della fede come ‘grande narrazione’, addirittura storico-universale, costituisce una provocazione nei confronti della retorica di una teologia che vorrebbe ridursi all’autobiografia del teologo. Pannenberg ha in comune con i classici della riflessione teologica l’idea di un pensiero intrepido, che non accetta di fermarsi prima di aver incontrato la realtà di Dio. Ed è questo ardire del concetto che ne fa, al di là di ogni critica, un maestro”.

*

Una terza personalità messa in forte rilievo da Ferrario nel capitolo dedicato alla teologia delle Chiese ortodosse è Ioannis Zizioulas, metropolita di Pergamo.

Zizioulas è il vescovo-teologo più autorevole del patriarcato ecumenico di Costantinopoli ed è amico di lunga data di Joseph Ratzinger. “Egli sviluppa – scrive Ferrario – l’idea della Chiesa come comunità che scaturisce dall’eucaristia. E in quanto tale essa è, non in senso teorico ma altamente realistico, corpo terreno del Risorto e partecipazione alla vita trinitaria”.

Non meraviglia, quindi, che “l’ecclesiologia eucaristica di Ioannis di Pergamo è assai utilizzata e apprezzata in ambito ecumenico. Essa è infatti molto organicamente, ed elegantemente, legata all’insieme della visione teologica e permette una comprensione della Chiesa in chiave anzitutto mistico-sacramentale, contro una deriva giuridica della quale, a volte, gli stessi cattolici romani evidenziano almeno alcuni limiti”. Una comprensione della Chiesa alla quale, riconosce Ferrario, “la mentalità protestante reagisce per contro in modo ambivalente”.

*

Nella pagina finale del suo avvincente viaggio nella teologia del Novecento, Ferrario cita la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona, con la sua rivendicazione di uno spazio pubblico per la teologia nelle moderne università del sapere.

E così conclude:

“Il nostro sguardo alla storia della teologia del Novecento dovrebbe aver mostrato che la teologia è stata ‘pubblica’ proprio quando è stata ecclesiale: quando cioè ha dato espressione intellettualmente critica al tentativo della comunità cristiana di annunciare l’evangelo nel mondo. […]

“I metodi esegetici, storici, filologici impiegati dalla teologia saranno gli stessi delle scienze religiose o delle teorie del cristianesimo che già ora l’affiancano e con le quali il pensiero ecclesiale è chiamato a dialogare serenamente.

“Ma diverso è il compito che la teologia cristiana si ostina a ritenere che le sia assegnato dal suo Signore: quello di contribuire, mediante la riflessione, al ministero della Chiesa, cioè alla predicazione della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, nell’attesa della sua venuta”.

E con questa limpida sentenza del più autorevole teologo protestante italiano, i molti falsi teologi che oggi affollano il proscenio – per “umanizzare” Gesù invece che predicarlo vero Dio e vero uomo – sono serviti.

__________

L’autore è professore di dogmatica e discipline affini presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma e docente invitato presso l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia. Dirige la rivista teologica della Facoltà Valdese “Protestantesimo”.

Sandro Magister

 

Una suora detective in stile Don Matteo

Nell’ultima puntata di Don Matteo 8, andata in onda giovedì scorso, l’abbiamo vista incrociare il sacerdote sfrecciando sul suo furgoncino blu. Adesso suor Angela, al secolo Elena Sofia Ricci, arriva su Raiuno il giovedì in prima serata (da domani) proprio al posto del prete-investigatore campione di ascolti, in Che Dio ci aiuti, la nuova serie giallo-rosa targata Lux Vide, diretta da Francesco Vicario e interpretata, oltre che dalla Ricci, anche da Massimo Poggio, Serena Rossi, Francesca Chillemi, Miriam Dalmazio, Marco Messeri e Valeria Fabrizi. Sedici gli episodi previsti, per otto prime serate, ambientate a Modena, la città in cui suor Angela vive, nel Convento degli Angeli Custodi, trasformato dalla religiosa, per motivi economici, in un convitto universitario con tanto di bar “L’angolo Divino”. La vita di suor Angela, con un passato non proprio cristallino con il quale sta ancora facendo i conti, si incrocia sin da subito con quella di Marco Ferrari, brillante ispettore di polizia (anche lui con un passato che finirà per venire a galla), e, soprattutto, con le sue indagini.

Elena Sofia Ricci racconta: «Il ruolo della suora mi è sembrato subito una bella sfida. E mi ha offerto anche l’occasione per scoprire qualcosa in più, di ritrovare un po’ quella parte spirituale che c’è in ognuno di noi e che tutti dovremmo ritrovare soprattutto in periodi come questo. In Che Dio ci aiuti ho provato a fare la suora che avrei voluto incontrare nella vita: un po’ don Matteo e un po’ don Camillo e anche un po’ Sister Act». Per prepararsi, l’attrice ha passato due giorni in un convento di clausura: «È stata un’esperienza incredibile.

Le suore mi hanno letteralmente sommersa di un amore che non è di questo mondo. Mi ero sempre chiesta come potesse essere la vita delle suore dietro quelle grate e Che Dio ci aiuti mi ha dato la possibilità di vederla da vicino anche se non nascondo che, all’inizio, è stato un po’ impressionante sentire il rumore delle chiavi che chiudevano i cancelli alle mie spalle». Entusiasta anche Massimo Poggio per il quale, «pur interpretando io il ruolo del poliziotto, questa non è una serie poliziesca ma pone l’aspetto soprattutto sul lato umano. Ogni personaggio, all’inizio, ha qualcosa in sospeso che si chiarisce strada facendo».

A chi ipotizza suor Angela come una sorta di don Matteo in gonnella, risponde il regista: «La differenza principale tra i due è che don Matteo è pieno di certezze, è più istituzionale. Suor Angela, invece, è una che ci prova ma che ha sempre la sensazione di non farcela».

Poi, aggiunge: «Questa serie insegna a fermarsi e a ragionare, a dare agli altri una seconda possibilità, a vedere come ci si può capire e volere bene». Matilde Bernabei, che col fratello Luca ha prodotto (in coproduzione con Rai Fiction) Che Dio ci aiuti, conferma: «Questa è una di quelle storie che possono aiutarci a vivere la vita di tutti i giorni, guardando gli altri con un occhio diverso». Il direttore di Rai Fiction Fabrizio Del Noce (proprio nel giorno in cui i produttori tv hanno protestato in Vigilanza Rai per i tagli agli investimenti nelle fiction) non nasconde l’entusiasmo, anche alla luce dell’ottimo risultato di ascolto ottenuto lunedì scorso dalla replica di Preferisco il Paradiso, la storia di san Filippo Neri, sempre prodotta dalla Lux Vide: «Che Dio ci aiuti è una scommessa importante e ci sono fondate ragioni per pensare che proseguirà, il giovedì sera, sulla scia del successo di Don Matteo».

Avvenire  17 12 2011

Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani

“Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani”: questo il titolo, modulato dal magistero di Benedetto XVI, della Giornata di riflessione sulla formazione socio-politica, promossa da Retinopera a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, sabato 17 dicembre.
I lavori sono stati aperti dal Card. Angelo Bagnasco. Nella sua relazione, il Presidente della Cei ha esortato a tenere vivo il concetto vero di coscienza, a formarla, educandosi a scegliere sempre il bene concreto e ad esercitarla nel discernimento ecclesiale.
Rispondendo ai giornalisti, ha chiarito che “la Chiesa paga l’Ici! Eventuali casi di elusione relativi a singoli enti, se provati, devono essere accertati e sanzionati con rigore: nessuna copertura è dovuta a chi si sottrae al dovere di contribuire al benessere dei cittadini attraverso il pagamento delle imposte. Le tasse non sono un optional”.
Il Cardinale ha anche spiegato che “l’esenzione dall’Ici per talune categorie di enti e di attività non è un privilegio, ma è il riconoscimento del valore sociale dell’attività che viene esentata”; esenzione – ha ricordato – che “non riguarda solo la Chiesa ma anche altre confessioni religiose e una miriade di realtà non profit”.
Infine, ha ribadito la disponibilità della Chiesa che vive in Italia a “valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a tutto il mondo dei soggetti e delle attività non profit oggetto dell’attuale esenzione”.

file attached Retinopera.doc

IV Domenica di Avvento (Anno B)

IV DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno B

Prima lettura:

 

Il re Davide, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda». Natan rispose al re: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te».  Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: «Va’ e di’ al mio servo Davide: “Così dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”».

v Il testo di 2 Sam 7,12-14 è il perno del messianismo dinastico. Quando Israele ha un regno e un re, i profeti ne prendono atto per dare una raffigurazione o configurazione concreta all’idea della salvezza, cioè alle vaghe «promesse» che Abramo ha portato con sé partendo da Ur (cf. Gn 12,3).

La sensibilità religiosa di David esplode dopo la costruzione della sua reggia. Allora gli pare sconveniente che l’arca del Signore sia ancora custodita «sotto i teli di una tenda». Anche il profeta Natan sembra in un primo tempo confermarlo nel proposito di costruire un tempio a JHWH, ma nella notte l’uomo di Dio riceve un messaggio diverso. La casa per JHWH non è urgente mentre è del tutto opportuno pensare e provvedere al consolidamento della «casa», ossia della dinastia davidica da poco affermatasi.

Dio ha scelto David; da umile pastorello l’ha costituito capo del suo popolo; l’ha accompagnato persino nelle sue guerre, ha combattuto per lui assicurandogli la vittoria sui nemici. Il discorso è arduo ad accettarsi ma le parole non vogliono dire altro che Dio ha avuto una particolare attenzione alla persona di David per dei compiti riservati a un suo lontano discendente. Non è la persona del re l’oggetto delle preoccupazioni e predilezioni divine ma la sua dinastia, la «casa». Il patto stretto alle pendici del Sinai con l’intera nazione trova una sua speciale attuazione con la famiglia di David, alla quale Dio assicurerà una durata eterna (v. 16). È una promessa, una profezia che passa attraverso la dinastia davidica, ma ne trascende i componenti.

Il titolo «figlio di David» diventerà sinonimo di re escatologico, di messia, di liberatore e restauratore delle sorti del popolo di Dio. La dinastia scomparirà con l’esilio e il popolo continuerà ad attendere il «figlio di David». Anche Gesù ne sentirà parlare e ne parlerà ma si tratta di un attributo messianico tradizionale più che di un collegamento storico-dinastico con l’antico casato regale. Gesù dimostra che può essere «figlio di David» anche uno che originariamente è il «figlio del falegname».

 

Seconda lettura:

Fratelli, a colui che ha il potere di confermarvi nel mio vangelo, che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen.

 

v La Lettera ai romani ha due «conclusioni»: 11,33-36 e il presente brano. Nel primo caso Paolo esce in un inno di ringraziamento alla imperscrutabile sapienza divina per avere appunto intrecciato sia la missione che la defezione d’Israele con la conversione e salvezza dei gentili.

Ora con un nuovo inno ricapitola le tappe del disegno di Dio, il «mistero». Esso è rimasto nascosto «per secoli eterni» nella sua mente; è stato poi fatto trapelare da lui stesso attraverso i profeti, quindi le Scritture, e «ora» ne ha fatto la piena manifestazione in virtù dell’annunzio [kerygma] di Gesù Cristo di cui Paolo è il banditore (l’evangelista).

Cosicché anche i romani come tutti i gentili che sembravano esclusi dal piano della salvezza, almeno secondo un’ottica o una lettura accreditata presso le scuole giudaiche, vi fanno invece parte.

Il messaggio centrale del Vangelo è che Dio, secondo l’esperienza che ne ha fatto Gesù, è eguale con tutti i popoli, come con tutti gli uomini. Essi sono egualmente suoi figli, sia i discendenti di Abramo che di Israele, i giudei e i samaritani. È la buona notizia, il vangelo che egli comunicava ai suoi seguaci e agli uomini della sua generazione, ma i più non l’hanno capito e si sono ribellati alle sue aperture e l’hanno condannato. Ma altri l’hanno compreso e fatto proprio e tra questi ama annoverarsi Paolo, chiamato l’apostolo dei gentili, scelto particolarmente da Dio a questo scopo.

Paolo sa di ripetere una testimonianza, un’esperienza che proviene da Gesù Cristo, ma osa dire che è il suo vangelo, il messaggio di consolazione che ora trasmette ai romani come ha già fatto ai gentili dell’Asia e della Grecia. «Suo» perché ormai è la sua prima, quasi ossessiva preoccupazione. «Guai a me se non evangelizzo», dirà anche in questo senso ai corinti (1Cor9,16).

Tutto è partito da Dio e tutto a lui deve far ritorno, cioè a lui deve ridondare la gloria che proviene dall’attuazione di questo spettacolare disegno di ampiezze universali, meglio, indefinite, perché va oltre il tempo e oltre lo spazio. L’autore non può non chiudere quest’evocazione con un invito alla lode a colui che è all’origine del disegno e ne è stato l’esecutore. Almeno coloro che ne sono i beneficiari si ricordino di rivolgere uno sguardo riverente e grato a colui che li ha tanto amati.

 

Vangelo:

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».  Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

 

Il Vangelko in immagini

AVVENTO IV AVVENTO ANNO B

 

Esegesi

 

Luca apre il suo «racconto» dell’infanzia di Gesù con due quadri messi a fianco e a confronto in modo che al lettore o all’osservatore sia più facile rilevare le somiglianze e le differenze dei rispettivi protagonisti dell’uno e dell’altro dipinto. È il «dittico degli annunzi», a un sacerdote di Gerusalemme (1,5-25) e a una vergine di Nazaret (1,26-38). Il primo riguarda la concezione e nascita del precursore messianico, il secondo il messia stesso.

La «notizia» che l’evangelista deve comunicare è al di fuori di qualsiasi verifica, anzi al di sopra della stessa comune logica. Deve perciò essere messa bene in chiaro la fonte da cui proviene. L’«annunzio» pertanto appare un’esperienza straordinaria, ma è soprattutto un modulo, si potrebbe dire un genere letterario. Quello che l’evangelista sta per segnalare o proporre non proviene dalle riflessioni o dalla fantasia di qualche eminente pensatore (non è un dato filosofico o teologico) ma giunge direttamente da Dio. È una sua comunicazione, un messaggio che gli ha fatto pervenire tramite i suoi particolari fiduciari (i profeti).

L’«angelo» è per sua definizione un «messo» del Signore, potrebbe essere anche una sua visibilizzazione. In tutti i modi sta sempre a indicare la provenienza delle informazioni riferite e insieme ne ricorda il garante. Chi legge non può avere dubbi non tanto sulla realtà dell’apparizione, quanto sul messaggio trasmesso.

I contorni della raffigurazione sono anch’essi più funzionali che episodici; segnalano il teatro degli «avvenimenti», le condizioni dei protagonisti; in realtà mirano a far conoscere la trama e i presupposti della salvezza.

Maria, a differenza di Zaccaria, di stirpe sacerdotale, è una sconosciuta fanciulla di Nazaret, un oscuro villaggio della semipagana Galilea. Una contrada da cui nessuno s’aspettava che potesse uscire qualcosa di buono (Gv 1,46). Il suo unico prestigio è che è «vergine». Il termine sta indicare la sua giovane età, ma come apparirà nel resto del dialogo, indica anche una sua particolare scelta di vita. Anche il comportamento dell’angelo, ben diverso da quello assunto con Zaccaria, è ordinato a mettere in rilievo la dignità di Maria. A lei l’angelo è inviato e verso di lei è ossequioso, accondiscendente, mentre con il suo precedente interlocutore era stato categorico e imperioso.

L’«annunzio» è uno schema didattico, ma insieme anche una «scena». I personaggi sono in movimento, parlano tra di loro, si scambiano messaggi. Le prime parole dell’angelo sono misteriose: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (1,28). L’originale greco chaire può esser tradotto con un comune «salve», «ave» (shalom), ma potrebbe anche equivalere a «esulta», «rallegrati». In quest’ultima supposizione il messo celeste non farebbe che ripetere l’invito che i profeti rivolgevano alla figlia di Sion a prepararsi alla venuta di JHWH in mezzo al suo popolo. «Esulta, rallegrati, ecco JHWH è in mezzo a te valoroso salvatore» (cf. Sof 3,14-15; Gioe 2.21 -22; Zc 2,14; 9,9). Se un analogo invito è rivolto a Maria vuol dire che in lei, attraverso qualche sua singolare prestazione, si realizzeranno le previsioni profetiche. In lei si raccoglie simbolicamente il migliore Israele erede delle promesse di Dio al suo popolo. Se ciò è vero vuol dire che le antiche promesse stanno per avere la loro attuazione.

La «pienezza di grazia» che l’angelo scopre in Maria indica la sua interiore santità, ma più probabilmente la missione che lei è chiamata a svolgere. «Hai trovato grazia», le viene ripetuto poco dopo (1,30) quasi a conferma e vien fatta un’allusione alla sua maternità. A tale scopo, per portare cioè a compimento un compito così grande. Dio stesso sarà con lei, come altre volte in passato si era trovata a fianco dei vari protagonisti della storia della salvezza. «Io sarò con te» è ormai la frase di prammatica nella tradizione profetica. Dio non lascia i suoi inviati allo sbaraglio, ma li assiste con tutti i suoi favori.

Le parole dell’angelo lasciano intuire un incarico, un’incombenza nel piano di Dio, ma non quale essa sia; per questo Maria invece di esultare rimane meditabonda. Dentro di sé si domanda che cosa potesse significare un tale saluto. L’angelo è in grado di comprendere le sue difficoltà senza che lei le manifesti e cerca di dissiparle prima che lei risponda. Ella pertanto darà alla luce un figlio che sarà egualmente «figlio dell’Altissimo», «re d’Israele», «Cristo», unto, cioè consacrato al Signore. In altre parole lei, l’anonima giovane nazaretana, conseguirà la maternità più ambita da tutte le donne d’Israele.

Un messaggio del genere è sempre fonte di gioia, ma non sembra ne sia inondato l’animo di Maria. Ella non ha nulla contro la proposta angelica, ma la trova irrealizzabile nella sua persona. La frase «non conosco uomo» nonostante che l’autore abbia sopra detto che «era promessa sposa di un uomo» (1,27), sta a indicare che ella si trova in uno stato in cui le è precluso ogni rapporto maritale. Non solo non conosce un determinato uomo, ma alcun uomo, né ora, né in un immediato futuro. Solo in quest’ipotesi le sue parole hanno un senso. Nella sua vita avrà a fianco uno sposo, ma nessun marito. Da qui la richiesta all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».

Le vie di Dio sono sempre senza numero, hanno ripetuto di sovente i profeti; è quanto riaffermerà tra breve l’angelo (1,37) ora invece fa appello alla sua «potenza» e alla «virtù del suo Spirito». Esse sono in grado di far sbocciare un nuovo germoglio di vita nel seno di una vergine senza alcun concorso umano. La spiegazione di Lc 1,34 («Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?») è Lc 1,35 («Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra»).

L’obiezione di Maria può dirsi risolta. Ella sarà madre nonostante la sua scelta verginale e il figlio che nascerà da lei sarà «santo» come chi è nato da Dio; sarà addirittura «figlio di Dio» riflettendo in tutto i suoi comportamenti di carità e di amore fino a perdonare gli stessi crocifissori, un grado di perfezione che solo Dio sa avere (cf. Mt 5,48).

Qualcosa di analogo si era verificato nell’anziana parente Elisabetta. Colei che era sterile era diventata miracolosamente madre; Maria che è vergine, una cosa ben diversa ma molto affine alla sterilità, sarà ciononostante madre. Un evento illustra l’altro; anche se non lo spiega lo rende più facilmente accettabile.

Maria si trova nella piena possibilità di accettare coscientemente e liberamente la grande proposta; e il suo assenso è immediato, pieno, gioioso. Non è rassegnazione, accettazione supina, ma decisa, generosa. Il verbo «avvenga per me», in greco, è un ottativo; esprime un desiderio, una precisa volontà, un auspicio. E il nome che ella si attribuisce «la serva del Signore» conferma questo suo stato d’animo e questa sua disposizione. Ella è lieta, quasi ansiosa di compiere la volontà del Signore che l’ha chiamata a un compito così alto nell’attuazione dei suoi disegni.

L’«annunciazione» ossia il testo di Lc 1,26-38 oltre un «annunzio di nascita (della nascita del messia) è anche un «racconto di vocazione», della chiamata cioè di Maria alle sue prestazioni materne nell’opera della salvezza.

 

Meditazione


Lo sguardo pieno di speranza che ha nutrito la paziente attesa di Israele, e di ogni uomo, intravede all’orizzonte il compimento della promessa; Dio, canterà Maria nel suo inno di lode, «ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» (Lc 1,54-55). Le letture di questa quarta domenica di Avvento, che ormai ci avvicina al mistero del Natale, ruotano attorno al compimento della promessa di un Dio che entra definitivamente nella storia dell’umanità accogliendo il volto stesso dell’uomo (è il mistero della Incarnazione): Dio si rivela come l’Emmanuele, come il Dio che, nella fedeltà, continua a camminare assieme al suo popolo, ma in modo oramai totalmente nuovo e definitivo poiché «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14, versetto che risuonerà in tutto il tempo natalizio).

Nella prima lettura, tratta dal secondo libro di Samuele, la promessa a Davide di una discendenza e di un trono che dureranno per sempre trova misteriosamente il suo compimento in una umile casa della Galilea: a una giovane donna, Maria, viene annunciata la nascita di un bambino al quale «il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33). Ma come già il profeta Natan aveva preannunciato a Davide, Dio compie le sue promesse in modo paradossale e inaudito. Alla pretesa ingenua di Davide di costruire una «casa» a Dio, il Signore risponde con un dono inatteso: la sola «casa» veramente degna del Dio infinito, non costruita da mani d’uomo, è Gesù, la cui carne viene misteriosamente intessuta nel seno di Maria. In Gesù Dio ormai dimora con l’uomo e ogni uomo può trovare in Lui la sua propria casa.

Ciò che i profeti avevano annunciato e ciò che Dio stesso aveva anticipato con molti segni nella storia di Israele, è come misteriosamente sintetizzato nel racconto della annunciazione: ve-ramente «il mistero avvolto nel silenzio per secoli eterni» ora è manifestato (cfr. Rm 16,25). L’evangelista Luca, l’unico che ci riporta il racconto della annunciazione della nascita di Gesù ci offre una narrazione coinvolgente ed essenziale allo stesso tempo, capace di condurci alla soglia del mistero che continuamente si affaccia in tutto il racconto e lo avvolge; di esso ci fa percepire contemporaneamente la vicinanza (soprattutto attraverso il dinamismo delle reazioni di Maria alle parole dell’angelo) e l’insondabile profondità (nelle continue aperture verso l’infinito di Dio, soprattutto attraverso le parole dell’angelo). Nel racconto si intrecciano continuamente parole e testi della Scrittura, formando così un complesso sottofondo biblico che orienta alla comprensione di ciò che sta avvenendo, senza d’altra parte esaurirlo. E questo radicarsi nell’Antico Testamento offre al racconto della annunciazione una tonalità del tutto particolare; ciò che sta accadendo ora è in continuità con gli eventi del passato, indice della fedeltà salvifica di un Dio che non viene meno alla sua promessa, ma una continuità nel contempo trascesa a motivo della inaudita novità. Data la ricchezza degli spunti che questo testo offre, ci soffermiamo solo su due temi.

Anzitutto la gratuità di Dio. Uno sconosciuto villano della Gallica e un contesto quotidiano fatto di gioie (una coppia di fidanzati, il desiderio di costruire una famiglia) e di povertà. Ecco ciò che attrae lo sguardo di Dio. È forte il contrasto con l’annuncio della nascita del Battista, nel quadro solenne del tempio. L’iniziativa di Dio appare in tutta la sua gratuità, come qualcosa di inatteso e che capovolge i criteri umani, fino a raggiungere l’umanamente assurdo: una vergine che non conosce uomo potrà concepire un figlio. Veramente «nulla è impossibile a Dio» (v. 37). Ma questa gratuità si rivela soprattutto nel saluto dell’angelo Gabriele a Maria: «Rallegrati piena di grazia, il Signore e con te» (v. 20). In queste parole è racchiuso il mistero che abita Maria, diventando il sottofondo trasparente in cui si riflette l’amore di Dio per l’uomo. In questo saluto è impressa, quasi come un sigillo, la vocazione di Maria, il suo nome segreto che solo Dio conosce. Nel cammino di Maria è racchiusa la gioia (in greco charà) di ogni promessa di Dio che troverà compimento nella lieta notizia che è Gesù di Nazaret; nel cammino di Maria si riflette tutta la benevolenza di Dio, la sua grazia (in greco charis) che trasforma radicalmente la povera ragazza di Nazaret rendendola degna dello sguardo di Dio; e, infine, nel corpo stesso di Maria, la gioia e la grazia prendono un volto, quello dell’Emmanuele, quello del Signore che abita in mezzo al suo popolo.

Alla gratuità di Dio, fa eco l’ascolto di Maria. L’inaudita parola di Dio pronunciata dall’angelo attraversa l’umanità di questa donna, provocando diverse reazioni: in Maria inizia un dialogo interiore, un cammino di riflessione per capire il senso di ciò che ha udito. È un tratto tipico del modo di reagire di Maria e che Luca sottolinea altre volte: «Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Questa reazione attiva di Maria (ben lungi dalla paura di Zaccaria che rende muto l’uomo) permette di porre domande alla Parola e, di conseguenza, aprire un nuovo orizzonte, uno spazio di novità, un salto di qualità nella propria fede. E, d’altra parte, fede e ascolto sono il terreno in cui matura la risposta di Maria alle parola dell’angelo: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38). Con il suo alla Parola, Maria aderisce alla verità più profonda del suo essere: si sente nient’altro che «schiava» e come tale si presenta, libera e senza pretese, davanti al suo Signore. Solo in un cuore e in un corpo così disponibili la Parola può incarnarsi. È questa la vera beatitudine del credente: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1, 45).

 

Preghiere e racconti

 

Il Rabbi Mendel

Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”.

(tratto da Il cammino dell’uomo di Martin Buber).

 

Dove abita Dio?

Dove abita Dio? E la domanda che guida la nostra riflessione, infatti la parola «casa» ricorre ben 14 volte in 2Sam 7, di cui leggiamo solo alcuni versetti nell’odierna liturgia della Parola. Il re Davide considera un atto di giustizia la preoccupazione di dare a Dio una casa stabile, al posto della tenda che ospita l’Arca, il segno visibile della sua alleanza con l’uomo.

L’ingenuità di Davide non sta solo nel presumere una sorta di uguaglianza tra lui e Dio, simbolizzata dalla tipologia dell’abitazione, ma sta soprattutto nel non cogliere la portata del termine stesso: «casa» non è solo una costruzione di cedro (7,2), ma è la discendenza, la stabilità del regno, la paternità, il «trono reso stabile per sempre» (7,16). Tutte queste cose superano la buona volontà di Davide e sono frutto di una elezione divina cui l’uomo può solo aderire o rifiutare.

È Dio a scegliere la dimora adatta a manifestare la sua presenza, nell’attesa della «nuova Gerusalemme» che scende dal cielo, la definitiva «dimora di Dio con gli uomini» (Ap 21,2-3). Maria, la vergine di Nazaret, prefigura sulla terra questa dimora celeste: su di lei soffia lo spirito creatore (Gen 1), su di lei si stenderà come ombra la potenza dell’Altissimo. Maria sarà la casa di Gesù, del Figlio di Dio, del Dio-con-noi.

Dove abita l’uomo là abita Dio. La casa che il Signore sceglie per rivelarsi è l’uomo. Ogni singola vicenda umana diviene luogo di redenzione e di estrema vicinanza dell’Emmanuele, del Dio-con-noi. Né un luogo fisico costruito da mani d’uomo, ne alcun atto di giustizia umana potranno circoscrivere lo spazio del nostro Dio. Egli è libero e spazia di generazione in generazione, tessendo con sempre nuova fantasia i luoghi della sua sempre rinnovata manifestazione.

Le nostre case: luogo della dimora del Signore. «Casa» è anche la nostra dimora, l’abitazione che comunemente ci raccoglie e protegge, il luogo degli affetti più sinceri, dei sacrifici e delle gioie condivise. «Casa» è la storia di ogni singola famiglia. La preghiera di oggi sia anche un’invocazione perché le nostre case siano luoghi in cui il Signore abiti stabilmente. La sua fedeltà rende ogni casa dell’uomo luogo di santità.

Nel nostro cuore egli trova le sue delizie. Come Maria, il discepolo di Gesù lascia che l’Altissimo prenda stabilmente dimora in lui. Domanda che lo Spirito Santo operi in lui il prodigio della nuova creazione e che nel suo cuore, per sempre rinnovato e affidato al Padre, il Figlio dell’uomo riposi e trovi le sue consolazioni.

 

Racconto

La Madonnina stava sola sola,

nascosta come una umile viola,

presso ad un cancello appena chiuso.

Filava con la mano il bianco fuso.

Sua madre, S.Anna, era lontana.

Si era fermata presso una fontana.

Quando un angelo bello del Signore

entrò pian piano senza far rumore.

Alla Madonna le riscosse il cuore.

L’angelo le disse: “Non aver timore”,

Madre di un bel Bambino tu sarai,

quel Bambino Gesù lo chiamerai.

In te verrà lo Spirito di Dio.

Maria, Gabriele Arcangelo sono io.

Allora la Madonna chinò la testa

e l’angelo fece grande festa.

 

Maria, donna gestante

«Rimase con lei circa tre mesi. Poi tornò a casa sua».

Il vangelo stavolta non dice se vi tornò «in fretta», come fu per il viaggio di andata. Ma c’è da supporlo. Da Nazaret era quasi scappata di corsa, senza salutare nessuno. Quell’incredibile chiamata di Dio l’aveva sconvolta. Era come se, improvvisamente, all’interno della sua casetta si fosse spalancato un cratere e lei vi camminasse sul ciglio in preda alle vertigini. E allora, per non precipitare nell’abisso, si era aggrappata alla montagna.

Ma ora bisognava tornare. Quei tre mesi di altura le erano bastati per placare i tumulti interiori. Vicino a Elisabetta aveva portato a compimento il noviziato di una gestazione di cui cominciava lentamente a dipanare il segreto. Ora bisognava scendere in pianura e affrontare i problemi terra terra a cui va incontro ogni donna in attesa. Con qualche complicazione in più. Come dirglielo a Giuseppe? E alle compagne con cui aveva condiviso fino a poco tempo prima i suoi sogni di ragazza innamorata, come avrebbe spiegato il mistero che le era scoppiato nel grembo? Che avrebbero detto in paese?

Sì, anche a Nazaret voleva giungere in fretta. Perciò accelerava l’andatura, quasi danzando sui sassi. Oltretutto, su quei sentieri di campagna, vi si sentiva sospinta come dal vento, di cui, però, le foglie degli ulivi e i pampini delle viti non lasciavano percepire la brezza, nell’immota calura dell’estate di Palestina.

Per placare il batticuore, che pure tre mesi prima non aveva provato in salita, si sedette sull’erba.

Solo allora si accorse che il ventre le si era curvato come una vela. E capì per la prima volta che quella vela non si issava sul suo fragile scafo di donna, ma sulla grande nave del mondo per condurla verso spiagge lontane. Non fece in tempo a rientrare in casa, che Giuseppe, senza chiederle neppure che rendesse più esaurienti le spiegazioni fornitegli dall’angelo, se la portò subito con se. Ed era contento di starle vicino. Ne spiava i bisogni. Ne capiva le ansie. Ne interpretava le improvvise stanchezze. Ne assecondava i preparativi per un natale che ormai doveva tardare.

Una notte, lei gli disse: «Senti, Giuseppe, si muove».

Lui, allora, le posò sul grembo la mano, leggera come battito di palpebra, e rabbrividì di felicità.

Maria non fu estranea alle tribolazioni a cui è assoggettata ogni comune gestante. Anzi, era come se si concentrassero in lei le speranze, sì, ma anche le paure di tutte le donne in attesa. Che ne sarà di questo frutto, non ancora maturo, che mi porto nel seno? Gli vorrà bene la gente? Sarà contento di esistere? E quanto peserà su di me il versetto della Genesi: «Partorirai i figli nel dolore»?

Cento domande senza risposta. Cento presagi di luce. Ma anche cento inquietudini. Che si intrecciavano attorno a lei quando le parenti, la sera, restavano a farle compagnia fino a tardi. Lei ascoltava senza turbarsi. E sorrideva ogni volta che qualcuna mormorava: «Scommetto che sarà femmina».

Santa Maria, donna gestante, creatura dolcissima che nel tuo corpo di vergine hai offerto all’Eterno la pista d’atterraggio nel tempo, scrigno di tenerezza entro cui è venuto a rinchiudersi Colui che i cieli non riescono a contenere, noi non potremo mai sapere con quali parole gli rispondevi, mentre te lo sentivi balzare sotto il cuore, quasi volesse intrecciare anzi tempo colloqui d’amore con te.

Forse in quei momenti ti sarai posta la domanda se fossi tu a donargli i battiti, o fosse lui a prestarti i suoi.

Vigilie trepide di sogni, le tue. Mentre al telaio, risonante di spole, gli preparavi con mani veloci pannolini di lana, gli tessevi lentamente, nel silenzio del grembo, una tunica di carne. Chi sa quante volte avrai avuto il presentimento che quella tunica, un giorno, gliel’avrebbero lacerata. Ti sfiorava allora un fremito di mestizia, ma poi riprendevi a sorridere pensando che tra non molto le donne di Nazaret, venendoti a trovare dopo il parto, avrebbero detto: «Rassomiglia tutto a sua madre». Santa Maria, donna gestante, fontana attraverso cui, dalle falde dei colli eterni, è giunta fino a noi l’acqua della vita, aiutaci ad accogliere come dono ogni creatura che si affaccia a questo mondo. Non c’è ragione che giustifichi il rifiuto. Non c’è violenza che legittimi violenza. Non c’è programma che non possa saltare di fronte al miracolo di una vita che germoglia.

Mettiti, ti preghiamo, accanto a Marilena, che, a quarant’anni, si dispera perché non sa accettare una maternità indesiderata. Sostieni Rosaria, che non sa come affrontare la gente, dopo che lui se n’è andato, lasciandola col suo destino di ragazza madre. Suggerisci parole di perdono a Lucia, che, dopo quel gesto folle, non sa darsi pace e intride ogni notte il cuscino con lacrime di pentimento.

Riempi di gioia la casa di Antonietta e Marco, la quale non risuonerà mai di vagiti, e di’ ad essi che l’indefettibilità del loro reciproco amore è già una creatura che basta a riempire tutta l’esistenza.

Santa Maria, donna gestante, grazie perché, se Gesù l’hai portato nel grembo nove mesi, noi, ci stai portando tutta la vita. Donaci le tue fattezze. Modellaci sul tuo volto. Trasfondici i lineamenti del tuo spirito.

Perché, quando giungerà per noi il dies natalis, se le porte del cielo ci si spalancheranno dinanzi senza fatica sarà solo per questa nostra, sia pur pallida, somiglianza con te.

(Don Tonino Bello, Maria , donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000, 25-27).

Preghiera

Dio eterno,

Dio sempre nuovo,

inafferrabile,

Dio di alleanza,

Dio di libertà,

dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti?

dove si annuncia la tua venuta?

La tua Parola ci rassicuri,

o Padre degli uomini,

Dio della promessa,

ora e sempre.

 

Presenza imprevedibile,

Dio di lunga pazienza,

Signore dell’impossibile,

noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo

della tua venuta.

Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato

per scoprire, per svelare, per generare,

non cessiamo di pregarti:

il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno,

all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo,

nostro fratello e nostro Signore, per sempre.

(Nicole Berthet)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

Martini, la parola e il dolore

Fa freddo a Gallarate. È l’inizio di febbraio (del 2011 ndr).

I raggi taglienti di un sole che non riscalda filtrano attraverso i rami dei grandi pini che circondano la casa dei gesuiti.
Torno all’Aloisianum a quasi tre anni dall’ultimo incontro con il cardinale. L’emozione che provo è un misto di gioia per la possibilità di rivederlo e apprensione per le sue attuali condizioni. Sono accompagnato da un amico sacerdote che viene spesso qui. Per quanto è possibile mi ha preparato, ma chi incontrerò veramente oggi? Prima l’ascensore, poi un corridoio lungo e largo.
L’appartamento del cardinale è in fondo. (…)
Martini è seduto su una poltrona bianca, accanto a una finestra luminosa. Mi accoglie con un sorriso dolce. Gli occhi gli brillano. Il Parkinson, senza pietà, sta facendo il suo corso, e la voce ne è rimasta vittima, caduta sul fronte di questa battaglia che non si può vincere. Ma la luce degli occhi, quella, non l’ha potuta spegnere. Ed è una luce nuova, rispetto a come la ricordavo. Perché ha guadagnato un che di fanciullesco. Il lettore deve saperlo.
ra poco, riferendo i concetti espressi dal cardinale durante il nostro incontro, le parole saranno stampate come tutte le altre. Ma se il modo di imprimere le lettere sulla carta lo consentisse, bisognerebbe usare un carattere leggero come l’aria, tenue come una brezza. Ci vorrebbe qualcosa di impalpabile, e vorrei che tutti, leggendo, ne fossero consapevoli.
L’atmosfera è speciale. La malattia, specie quando colpisce un vecchio, spesso crea negli altri un senso di rifiuto e voglia di fuggire. Invece qui sto bene in compagnia del cardinale. Si avverte l’intima gioia che lui ricava dall’arrivo dell’ospite. Una gioia che si manifesta attraverso la curiosità. Tante le sue domande, e al primo posto, come sempre, ce n’è una: vuole subito sapere come sta la mia grande famiglia.
Non è solo, il cardinale. Persone premurose e competenti lo circondano e lo assistono. Con amore e, direi, con devozione. Anche per questo, nonostante la crudeltà di una malattia che avanza ogni giorno di più, qui non regna la tristezza, ma la serenità.
Per forza di cose il dialogo è fatto di poche parole, e ognuna è come una pepita strappata alla roccia di un morbo spietato che ingabbia la persona e la rende prigioniera del suo stesso corpo. Ma  forse, pensandoci, più che un blocco questo è un dono. Il limite diventa risorsa.
Si va all’essenziale, ci vuole tanta attenzione reciproca. I sintomi sono molto simili a quelli che afflissero Giovanni Paolo II. Ricordate la sua impossibilità di parlare? Mi sorprendo a pensare che  il buon Dio, attraverso i suoi disegni misteriosi, potrebbe aver deciso una volta ancora di incidere proprio così, come su papa Wojtyla, sull’uomo che ho di fronte, quest’uomo, questo vescovo, che per tutta la vita si è legato alla parola, soprattutto alla parola divina, indagandola senza tregua.
Non so da dove incominciare. Fosse per me, sinceramente, starei in silenzio, ma vorrei anche che questo incontro potesse diventare un regalo, per quanto piccolo, ai tanti che vogliono bene al cardinale. E allora decido di partire da un punto che potrebbe sembrare lontanissimo da lui. Rivolto a questo grande vescovo, parto da una piccola donna, Madre Teresa di Calcutta, e da una sua rivelazione.
Mi riferisco a quando la santa disse che per lunghi anni sperimentò, in un periodo della sua vita, la terribile esperienza del buio interiore, dell’assenza di Dio. Faceva le cose di sempre, si comportava come al solito, assisteva i moribondi, viaggiava, parlava in pubblico, ma dentro di lei c’era quel vuoto. Ecco: vorrei sapere se anche il grande biblista e arcivescovo Carlo Maria  Martini ha mai fatto un’esperienza simile.
Prima parlano gli occhi, poi, in un sussurro, arriva la risposta. «Sì, è stato alla fine degli anni Settanta, tra la fine dell’incarico di rettore all’Università Gregoriana e l’inizio del mandato episcopale a Milano. Consideravo tutte le cose come fatte dagli uomini e non provenienti da Dio, ma non avvertivo alcun dolore, e proprio la mancanza di dolore era la prova del vuoto. Ci sono passato».
Chiedo: come vive ora questa fase della sua storia personale? «In questa parte della mia vita non sento l’assenza di Dio. Anzi. Si possono fare tante cose anche nelle mie condizioni. Mi sento al centro della mia vecchia diocesi, al centro degli affetti e dell’attenzione di tanti. Ricevo moltissime visite, e poi lettere. Mi trovo nel cuore di una grande rete di rapporti».
Un sorso d’acqua, un breve intervallo per riprendere respiro. E come vede da qui, dal centro di questa rete, la Chiesa cattolica dei nostri tempi? La risposta arriva ancora una volta tanto flebile come suono quanto netta e sicura come contenuto: «La vedo forte nei suoi ministri, debole nelle sue strutture. Poco capace di servire le esigenze del mondo di oggi».
Perché? Da dove nasce questa debolezza? «In parte da una umanità poco sensibile sotto il profilo pastorale, in parte dal fatto che la Chiesa pensa troppo in termini politici. Pensa a come vincere, e dedicandosi a questo perde la capacità profetica. Inoltre la dottrina cattolica andrebbe vista, e spiegata, come qualcosa di gioioso, non come minaccia e paura. Faccio l’esempio del problema della  comunione ai divorziati risposati, perché tanti mi scrivono in proposito. Ci vorrebbe spirito di apertura».
E come vede la condizione del sacerdote, oggi? «Nel trattare con la gente i preti sono bravi, però spesso sono appesantiti e scoraggiati». Che cosa li potrebbe aiutare? «Un legame profondo con la parola di Dio. Perché Dio suscita energie, rallegra, dà entusiasmo».
Il lettore ricordi: queste parole, pensate lucidamente, escono a fatica perché la malattia ha colpito la voce. È chiaro quindi che sto abusando della disponibilità del cardinale. Le persone che lo  assistono sono troppo cortesi per dirmelo, ma so che Martini è stanco.
Continuo? Posso? Gli occhi azzurri dicono di sì. E allora immaginiamo di rivolgerci a un giovane d’oggi, a un ventenne che si ritiene ateo. Come parlargli di Dio? «Con l’esempio di una vita cristiana. Occorre portarlo a meditare su ciò che non è vero. Lui pensa di avere chiarezza dentro di sé, ma non ce l’ha. E poi sono importanti le amicizie, per tenere deste le domande. Troppo spesso i giovani sono svogliati e inappetenti».
Eminenza, mi deve perdonare. Ancora una curiosità. Che cosa provò quando i terroristi la chiamarono e le consegnarono le armi? Ebbe paura? «No, nessuna paura. Quando portarono le borse con le armi chiamai il prefetto. Arrivò e io dissi: bene, apriamo le borse. Lui restò inorridito ed esclamò: per carità, non tocchiamo niente! Una situazione curiosa. Temo che un po’ di paura l’ebbe invece il mio segretario di allora, don Paolo Cortesi».
Eminenza, mi dica: qual è stata la sua più grande gioia, nel corso della vita? E, se c’è, un rimpianto…«La più grande gioia? I ventidue anni di episcopato a Milano. Un rimpianto? Essere stato pigro, negligente e svogliato nei contatti umani e nelle situazioni più difficili».
Le persone che assistono al nostro dialogo sorridono. Dicono che il cronista sembra diventato il confessore e il cardinale il penitente. Mi accorgo che sul pavimento c’è un bel pallone. È un regalo per il cardinale da parte dell’amico prete che mi ha accompagnato qui (…). «Lo usiamo» mi spiega «anche un po’ a scopo terapeutico, per aiutare padre Martini a rispondere alle sollecitazioni agli  arti inferiori e mantenere i riflessi pronti». Chi l’avrebbe mai detto? Nella casa del biblista Martini (…)  un pallone da calcio (…).
Mi rendo conto che non ho mai chiesto al cardinale se ha una squadra del cuore. Lo faccio ora e scopro che non solo non è la mia, ma è anche un’acerrima nemica dei colori della mia passione calcistica. Dopo tutto, nessuno è perfetto! (…)

 

in “Europa” del 15 settembre 2011

 

 

Don Alberto dell’Acqua, Sacerdote fidei donum a Djamboutou, Camerun, ha preparato con i giovani della sua parrocchia un questionario per il Card. Martini, sulla scia delle domande presentate da giovani europei nel libro “Conversazioni notturne di Gerusalemme“.

Il card. Martini ha risposto affettuosamente e brevemente.

Ecco, in esclusiva su questo blog il testo della “conversazione”.

Carissimo don Alberto,
Solo ora posso prendere in mano le tue domande. Non è che abbia molto da fare, ma la mia capacità di lavoro è molto limitata e quindi ci metto molto tempo a fare le cose. Ma ho pensato spesso a voi e mi congratulo con i giovani per le loro domande. Cercherò di rispondere tenendo presente l’ordine con cui tu le proponi.

Domande che riguardano la sua vita e la sua vocazione

1. Perché ha scelto la strada del sacerdozio?
Ho scelto la strada del sacerdozio per donarmi tutto a Dio, che intuii fin dai dieci – undici anni come persona a cui si poteva e si doveva consacrare l’intera esistenza.

2. Le è capitato qualche volta di pentirsi di aver seguito Gesù?
Non mi sono mai pentito di aver seguito Gesù,ma mi sono sempre più rallegrato di lui. Non che mi siano mancate le prove e le difficoltà, ma quanto alla mia decisione fondamentale mi pare oggi la stessa con cui sceglievo settanta anni fa.

3. Riesce a rispettare i 10 comandamenti (n.d.r. in particolare: 6°, 7°, ’8°, 9° e 10°: i peccati più confessati qui)? Se sì, come fa?
Mi pare di sforzarmi di rispettare i 10 comandamenti. Il segreto è fidarsi di Dio e abbandonarsi a Lui.

4. Le è già capitato di avere una rivelazione/apparizione/sogno (n.d.r. al sogno e alla sua interpretazione la gente qui dà spesso una grande importanza e quasi sempre ne ha paura) durante la preghiera? Crede nelle persone che dicono di averne avute?
Non mi ricordo mi sia mai capitato di avere rivelazioni o simili. Rispetto le persone che dicono di averle avute, ma vorrei poterne avere le prove e non e

5. Da dove viene il suo amore per la comunità cristiana di Djamboutou?
Il mio amore viene dallo Spirito Santo e anche dalla conoscenza personale che ho avuto della comunità, bella e coraggiosa.

6. Perché vorrebbe terminare la sua vita a Gerusalemme?
Volevo vivere e morire a Gerusalemme perché è la città della rivelazione e della redenzione, Ma la mia salute non mi ha permesso di viverci ulteriormente.

7. Cosa dobbiamo fare per diventare come lei?
Non dovete diventare come me, ma molto di più, seguendo ciascuno la sua vocazione e rispondendo ai doni di Dio.

 


Domande che riguardano la vita di noi giovani

1. Cosa dobbiamo fare per amare e seguire la Parola di Dio?
Bisogna anzitutto conoscere la Parola di Dio e vedere in essa con quale amore Dio ci abbia amato

2. Cosa possiamo fare come giovani per altri giovani che non credono in Gesù? E per quelli che ci criticano quando parliamo della nostra fede (n.d.r.chiese protestanti, sette, battezzati che hanno abbandonato il cammino…)?
Occorre vivere personalmente il Vangelo. Esso è inoppugnabile quando vissuto nella sua intera verità (con il perdono delle offese, l’amore anche dei nemici ec.)

3. Perché tanti giovani africani si lasciano tentare dalle sette?
Mi pare che le sette corrispondano in positivo a un desiderio di maggiore soggettività nella comunità e in negativo a una religione facile e affidata all’entusiasmo.

4. Come possiamo fare per lottare contro le tentazioni, in particolare quella dell’ipocrisia, del facile guadagno e quelle legate alla nostra sessualità (n.d.r. per guadagnare qualcosa spesso capita che si venda anche il proprio corpo e comunque riesce molto difficile trovare un equilibrio e un buon controllo rispetto alla grande energia della sessualità)?
Bisogna avere grande stima della dignità della nostra anima e del nostro corpo e pensare che v’è più gioia nel sacrificio e nella rinuncia che non nell’accondiscendere alle nostre passioni.

 


Domande che riguardano l’Africa

1. Perché qui in Africa gli uomini e le donne hanno una speranza di vita più breve di quanto fosse nel passato e rispetto agli uomini e le donne di altre parti del mondo?
Non saprei dire se la speranza di vita è più breve. Per quanto ne so la vita media si è allungata anche in Africa, Però è inferiore a quella europea per causa della fame, delle malattie ecc. Bisogna che i paesi dove c’è benessere si diano da fare per l’Africa, ma che anche gli africani stimino il bene comune superiore al bene del gruppo. Altrimenti la politica sarà sempre fonte di corruzione e di lotte.

2. Perché i giovani africani incontrano sempre tante difficoltà per quanto riguarda lapossibilità e la scelta di un lavoro?
Mi pare che in Africa ci sia meno lavoro anche per le condizioni generali del Continente. Ma chi ha veramente voglia e impegno deve rischiare.

3. Spesso il diavolo è presentato come un essere “nero”: questo vuol dire che il continente africano è votato alla perdizione?
Non c’è alcun rapporto tra il “nero” del diavolo (che è piuttosto rappresentato come rosso fuoco) e il “Continente nero”. Oggi, come si vede nel presidente americano, anche il nero può assurgere alle più alte responsabilità come e più del bianco.

da http://cmmddc.blogspot.com/

Scienza e fede

LA LECTIO

 

1.      La fede

 

Ogni uomo vive di “fede”, più esattamente di “fiducia”: è infatti un atteggiamento di base, che appartiene alla vita stessa. Ognuno, per vivere, deve fidarsi degli altri, deve accettare moltissime cose senza verificarle di persona. Dall’esperienza, dunque, individuiamo la “struttura assiologia” di questo atteggiamento: per un verso è un “sotto-valore” rispetto al sapere; ma per un altro è un valore basilare dell’esistenza umana, un fondamento senza il quale nessuna società potrebbe sopravvivere, e innanzitutto nessuna persona.  Sempre dall’ esperienza possiamo ricavare anche la “struttura dell’atto”: si intrecciano il riferimento a qualcuno che conosce una cosa e che è persona qualificata e degna, la testimonianza della fiducia di altri, e, infine, una certa verifica nella nostra esperienza quotidiana.

Questa struttura  è in qualche misura presente anche nella fede cristiana: il riferimento primo – rispetto a Gesù Cristo – sono gli Apostoli perché sono loro che hanno vissuto con il Maestro, ascoltato le sue parole, ne hanno per tre anni condiviso i giorni, lo hanno visto soffrire, morto e risorto,  salire al cielo. Dalla sua bocca essi hanno appreso i misteri di Dio-Trinità. Si tratta di valutare, di questi uomini, la testimonianza della vita, l’affidabilità, e questa – poco o tanto – richiede sempre una scommessa dove la libertà di ciascuno si gioca. Ma è una scommessa ragionevole non irrazionale! In essa vi è una plausibilità intrinseca che l’esperienza universale conosce e vive a livello di rapporti quotidiani.

E poi, abbiamo la testimonianza di altri che si sono fidati e hanno creduto sulla loro parola, abbiamo duemila anni di storia, intessuta di opere, di cultura, di arte, di civiltà, di promozione umana, di carità, di santità…in una parola di elevazione e di bene per il mondo. Gli errori non mancano, ma non derivano dalla fede, bensì dalla poca fede.

Infine, ogni uomo ha la possibilità di  toccare con mano, di  provare a vivere il Vangelo sulla propria pelle per verificarne la verità e la congruenza con le aspettative più profonde del cuore umano. Come è chiaro, la fede non riguarda  un sistema di idee e non può essere ridotta a una forma di gnosi; riguarda la persona di Gesù di Nazaret, il Dio che in Cristo  è entrato nella storia umana, è venuto a cercare l’uomo smarrito e lacero, ha posto la dimora in mezzo a noi per stare con noi ed essere per ciascuno amore e salvezza, verità e vita. Per questo la fede cristiana è un incontro, e si incontrano veramente solo le persone: è un rapporto, è vivere riferiti a Cristo, è sapere che Dio è Qualcuno, è intuire che noi esistiamo perché Dio vive. È esserne affascinati, ghermiti, posseduti: “La risposta a Dio esige quel cammino interiore che porta il credente ad incontrarsi con il Signore.

Tale incontro è possibile solo se l’uomo è capace di aprire il suo cuore a Dio, che parla nella profondità della coscienza. Ciò esige interiorità, silenzio, vigilanza” (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno per i Vescovi nominati nell’ultimo anno, 19.9.2005). E Romano Guardini scrive: “C’è in te un silenzio che si ascolta con l’anima. In questo silenzio l’ospite riposa, l’anima si risana” (Romano Guardini, Lettere sull’autoformazione).  Con il battesimo – “vitae spiritualis ianua” –  il cristiano scambia la propria libertà con la libertà di Gesù che è venuto per rigenerare l’umanità con la forza salvifica della grazia, e creare così un nuovo modo di rapportarsi e di vivere, una società nuova. Proprio perché Cristo è il Verbo eterno, Dio indica la strada del bene e del vero, della bellezza e della felicità: per questo entra e c’entra con la nostra vita, non è una divinità vaga, cosmica e muta, così rarefatta  e lontana da essere insignificante per il nostro vivere.

 

A fronte della fede si riscontra la posizione dell’ateismo che nega espressamente l’esistenza di Dio, e dell’agnosticismo che sospende il giudizio, e prende una specie di equidistanza tra l’esistenza e la non esistenza di Dio. A qualcuno sembra essere questa la posizione più corretta e rispettosa. Ma sorge, immediata, la domanda se l’agnosticismo possa realmente rispondere non tanto al problema speculativo, astratto, ma al problema concreto del vivere umano: se l’uomo, cioè, possa mettere tra parentesi la questione di Dio, cioè della sua origine e del suo destino, del significato e del valore del suo esistere e morire. Possiamo accontentarci di vivere sotto la forma ipotetica del “come se Dio non esistesse”, mentre può darsi che Egli esista davvero? La questione di Dio non è come sapere se due rette parallele s’incontrino all’infinito o meno, ma è pratico e coinvolge tutti gli ambiti della nostra vita. Di fatto, l’agnosticismo sembra impraticabile: se, infatti, sul piano teoretico sposassi la tesi agnostica, sul piano pratico dovrei comunque scegliere di vivere secondo una delle due opzioni da cui dichiaro di essere equidistante: o vivere come se Dio non esistesse oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia esistenza. Il riferimento a Pascal è inevitabile: egli raccomandava all’agnostico di rischiare, di scommettere e di vivere come se Dio esistesse (cfr Pensieri, nn. 164-170). Era convinto che attraverso l’esperienza diretta, l’agnostico sarebbe arrivato, ad un certo punto, a riconoscere la giustezza della sua scelta. Mi sembrano incisive e opportune le parole di André Gide: “Non perché mi sia stato detto che eri il Figlio di Dio ascolto la tua parola; ma la tua parola è bella al di sopra di ogni parola umana e da ciò riconosco che sei il Figlio di Dio”!

 

2.        La scienza

 

a)        Non è possibile separare nettamente la riflessione sulla scienza da quella sulla tecnologia in forza della loro intrinseca relazione, anche se la  prima è più di ordine teoretico, mentre la seconda più di ordine pratico. Il Magistero della Chiesa affronta la riflessione distinguendo due ambiti problematici: il rapporto della scienza con la verità e il rapporto tra scienza e fede. Non affronto lo sviluppo della concezione di scienza nella storia, dalla cultura greca – primo passaggio dal mito al logos – al rinascimento, all’illuminismo, al positivismo. Riassumo il dilemma centrale: se la scienza abbia la funzione e la possibilità di scoprire la verità delle cose come sono, oppure se abbia lo scopo puramente pratico di assicurare il controllo, il funzionamento dei fenomeni secondo una  concezione strumentale della scienza. La Chiesa non si pronuncia in modo tecnico su tale questione, però le sue considerazioni si muovono nell’orizzonte di una visione realistica: “La ricerca della verità è il compito della scienza fondamentale” affermò Giovanni Paolo II durante la commemorazione di Albert Einstein, il 10 novembre 1979. Noi siamo convinti che esiste una verità e tale verità è oggetto della ricerca scientifica.

 

b)            L’altro problema riguarda il rapporto con la fede: se la scienza è  rapporto con la verità e anche la fede è rapporto con la verità, quale sarà il rapporto tra loro due?  Sembra opportuno, al riguardo, distinguere tre questioni.

Anzitutto quella della coerenza fondamentale tra le due forme di conoscenza.. Tale coerenza e compatibilità è data dall’unica origine della verità: il Concilio Vaticano II afferma che “la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio” (Gaudium et spes, 36). Galileo Galilei scriveva al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613 che le due verità, di scienza e di fede, non possono mai contrariarsi “procedendo di pari dal Verbo divino la Sacra Scrittura e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio”.

Una seconda questione, come un passo ulteriore, riguarda lo statuto delle due forme di conoscenza, cioè di rapporto con il reale. Se, come abbiamo visto, la fede e la scienza hanno in comune la ricerca della verità, si deve ricordare però che la verità oggetto di fede non coincide con la verità oggetto di scienza. La prima riguarda le verità soprannaturali, la seconda quelle naturali. Se dunque la categoria della verità è unica, il tipo di verità che i due approcci conoscitivi affrontano è duplice. Alla differenziazione degli oggetti corrisponde una differenziazione dei metodi: ogni approccio ha le sue peculiarità e le sue leggi: “Il Sacro Concilio, richiamando ciò che insegnò il Concilio Vaticano I, dichiara che ‘esistono due ordini di conoscenza’ distinti, cioè quello della fede e quello della ragione, e che la Chiesa non vieta che ‘le arti e le discipline umane (…) si servano, nell’ambito proprio a ciascuna, di propri principi e di un proprio metodo” (GS, 59). Per questo la Chiesa afferma la legittima autonomia della cultura e specialmente delle scienze. L’Osservatorio astronomico del Vaticano (Specola Vaticana) e la Pontifica Accademia delle Scienze istituita dal Papa Pio XI nel 1937, e che annovera più di ottanta accademici di fama internazionale, tra i quali un buon numero di Premi Nobel, sono una testimonianza della stima e del sostegno della Chiesa al mondo scientifico e alla ricerca.

Ma si può fare un ulteriore passo al fine di giustificare la distinzione e la collaborazione tra scienza e fede. Non basta richiamare la diversità dei rispettivi oggetti di conoscenza; infatti i due piani delle verità di ordine naturale e di ordine soprannaturale non sempre prevedono oggetti nettamente distinti. Vi sono realtà che possono essere affrontate da due punti di vista diversi pur essendo le medesime realtà. La persona umana, ad esempio, può essere considerata sia dal punto di vista della natura – ed allora sarà indagata col metodo scientifico – oppure dal punto di vista soprannaturale, ed allora sarà guardata con gli occhi della fede. La logica direbbe che l’oggetto materiale è lo stesso, ma l’oggetto formale è diverso: cioè il punto di vista, lo scopo, e quindi il metodo. Quello della scienza non è lo stesso della fede. La fede cristiana – in quanto rapporto vivo con Cristo nella Chiesa – apre l’uomo al mondo di Dio, al suo abbraccio di Padre, lo immette nella vita del suo amore infinito, viene elevato allo stato di grazia, ad una vita nuova di figlio, e in questo orizzonte percepisce gli altri non come estranei, o simili, ma come fratelli. Nella luce della fede, l’uomo scopre la sua origine e il suo destino, giunge al senso di sé, dell’universo e della storia: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo (…) Cristo Signore (…) rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (GS 22). All’interno di questo orizzonte di fede la vita quotidiana si riempie di una densità che anticipa l’eterno, e nessun frammento, né alcuna esperienza dolorosa o lieta, vittoriosa o perdente, di bene o di male, diventa insensato e inutile, ma tutto fa presentire il cielo. Questo non fa parte della scienza, non è il suo oggetto formale, il suo scopo specifico. Si entrerebbe nella logica dello scientismo che sostiene che l’unica conoscenza valida è quella che proviene dal metodo induttivo delle scienze naturali. Voltaire, che aveva assistito ai funerali ufficiali di Newton nel 1727, scriveva che questo gigante della scienza aveva avuto “la particolare fortuna non soltanto di essere nato in un paese libero, ma in’età in cui tutti gli spropositi della scolastica erano stati banditi dal mondo. La ragione sola era coltivata e l’umanità non poteva che esserne il discepolo”.

Ogni affermazione che riguarda i problemi ultimi è uno sconfinamento di campo, soprattutto è un dire parole che ingannano la ricerca di significato che fa di  ogni uomo un camminatore verso il compimento: “Vi è solamente – scriveva Albert Camus – un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta” (A.Camus, Il mito di Sisifo). Tra l’altro, una ragione dell’impossibilità da parte della scienza di poter elaborare il senso, sta nel fatto che il senso – come senso di un fenomeno, di un evento, della vita – coincide anche con la conformità ad un dover essere, cioè al comportamento etico dell’uomo, e la scienza non ha presa sulla sfera deontica. Anche quando certi aspetti della soggettività sono presi in considerazione dalla scienza, viene messo in atto una specie di naturalizzazione degli aspetti stessi, vengono ridotti quasi ad “oggetti inanimati”: “ L’odierno progresso delle scienze e della tecnica – scrive il Concilio Vaticano II – che in forza del loro metodo non possono penetrare nelle intime ragioni delle cose, può favorire un certo fenomenismo e agnosticismo, quando il metodo di investigazione di cui fanno uso viene innalzato a torto a norma suprema della verità totale” (GS, 57). Il discorso della Chiesa diventa decisamente puntuale quando si entra nella riflessione sulla tecnologia. E’ una preoccupazione costante  richiamare il primato dell’etica sulla tecnica, della persona sulle cose, il dovere di commisurare il progresso tecnologico con la dignità e i diritti dell’uomo: il potenziale della tecnologia non è neutro perché può essere usato sia per il progresso che per la degradazione dell’umanità.

 

3.       Scienza e fede, vie della formazione dell’uomo

 

Entriamo ora nell’orizzonte educativo che i Vescovi Italiani hanno scelto come  meta degli Orientamenti Pastorali “Educare alla vita buona del Vangelo”, e come  sfida del decennio iniziato. Se è vero che a nessuna età  si finisce  di crescere e di aver bisogno di formazione, è anche vero che chi è più avanti negli anni ha il dovere di essere punto di riferimento credibile per le giovani generazioni. I giovani hanno il diritto di trovare negli adulti – tutti – degli interlocutori significativi per la loro formazione, naturalmente avendo il desiderio forte e la disponibilità sincera di giocarsi con serietà e impegno nella costruzione integrale di sé: si tratta della riuscita della loro vita e del futuro del Paese. La Chiesa italiana crede fermamente nella sua vocazione educativa che è parte integrante e irrinunciabile del mandato che ha ricevuto dal Signore: annunciare il Vangelo nel mondo perché l’uomo sia salvo. La salvezza attiene ogni uomo e tutto l’uomo,  riguarda il futuro e il presente, il cielo e la terra.

Ora, ci chiediamo come la scienza e la fede, le due forme di approccio e di conoscenza della realtà, possono partecipare all’educazione integrale della persona. Mi pare che quanto abbiamo detto sopra possa offrirci una pista seppure sintetica per rispondere alla domanda posta.

 

a)         Innanzitutto, abbiamo visto che  la scienza e la fede hanno stretta relazione con la verità. Questo è il primo dato: bisogna educare l’uomo alla verità, al gusto della verità,  al rigore della ricerca, alla gratuità di fronte al reale. Si respira oggi un’aria che non sembra favorire il senso della verità: anziché tender alla verità per il gusto di contemplarla, per sapere il più possibile com’è la realtà che siamo e che ci circonda, per coglierne la bellezza e l’ordine interno,  l’ intelligenza  e la luce che ci avvolgono, la meraviglia dell’universo che non è caos ma razionalità, pare che la tensione dominante sia conoscere per usare, per piegare e sfruttare. L’uso della natura non è male in sé, corrisponde al disegno di Dio, alla gerarchia degli enti – l’uomo è al vertice dell’universo, ne è signore ma non dominatore, custode che deve usare ma non abusare – ma questa funzione della nostra ragione non deve assolutizzarsi fino ad oscurare l’altra funzione della ragione stessa, quella di conoscere per sapere, per capire, per contemplare, per vivere di meraviglia in un universo sorprendente e maestoso. Eistein affermava: “Difficilmente tra i pensatori più profondi nel campo scientifico riuscirete a trovarne uno che non abbia un proprio sentimento religioso (…) Il suo sentimento religioso assume la forma di ammirazione e di contemplazione di fronte all’armonia della natura, che rivela un’intelligenza così superiore che, in paragone, ogni pensiero sistematico o azione umana non è che illusione totalmente insignificante”. In modo incisivo e chiaro, Benedetto XVI, nel Viaggio Apostolico nel Regno unito, ha indicato la questione centrale del sapere umano: “A livello spirituale tutti noi, in modi diversi, siamo personalmente impegnati in un viaggio che offre una risposta importante alla questione più importante di tutte, quella riguardante il significato ultimo dell’esistenza umana (…) All’interno dei loro ambiti di competenza, le scienze umane e naturali ci forniscono una comprensione inestimabile di aspetti della nostra esistenza ed approfondiscono la nostra comprensione del mondo in cui opera l’universo fisico, il quale può essere utilizzato per portare grande beneficio alla famiglia umana. E tuttavia queste discipline non danno risposta, e non possono darla, alla domanda fondamentale, perché operano ad un livello totalmente diverso. Non possono soddisfare i desideri più profondi del cuore umano, né spiegarci pienamente la nostra origine e il nostro destino, per quale motivo e per quale scopo noi esistiamo, né possono darci una risposta esaustiva alla domanda: ‘Per quale motivo esiste qualcosa, piuttosto che il niente?’” (Benedetto XVI, Viaggio Ap. Nel Regno Unito, Incontro con i Rappresentanti di altre Religioni, 17.9.2010). L’uomo, infatti, è domanda e nostalgia: domanda di senso sulla realtà e su se stesso; nostalgia di una risposta che sia il compimento al suo sentirsi incompiuto, al suo riconoscersi un paradosso sul misterioso confine tra il finito e l’infinito, l’umano e il divino.

 

La smania invece di dominare e manipolare fino all’estremo della vita umana, nel sacrario del suo principio e nel mistero del suo concludersi, alimenta un atteggiamento strumentale che, mentre non rispetta correttamente la natura, umilia anche se stessa. L’educazione si colloca nell’ambito della contesa tra “utilitas” e “veritas”: l’utilità non è malvagia in se stessa a condizione che non diventi un assoluto, nel tal caso l’utilità si nega e si elimina da sé . Il senso dell’utile è più appariscente, ha una consistenza e una presa più diretti sulla sensibilità dell’uomo rispetto al più discreto senso del vero: per questo motivo quest’ultimo ha bisogno di aiuto e di sostegno. Ciò avviene nell’ambito dell’educazione dell’ intelligenza al senso del vero e del bello, e della coscienza morale al senso del bene. Perseguire quest’opera significa mantenere ampi gli spazi della ragione umana, aiutarla a non restringersi in un orizzonte angusto seppur suo, quello della ragione strumentale che cerca solo il “come” non il “che cosa” della realtà. A ben vedere, per educare al senso e alla ricerca della verità – qualunque ne sia la natura – è necessario maturare un atteggiamento complessivo che è di ordine ascetico e morale:  si tratta, infatti, di maturare  un atteggiamento di umiltà non di arroganza, di rispetto non di dominio. Non solo: si tratta di essere disponibili alla verità, quella che studia le scienze sperimentali e che richiede l’adesione a ciò che scopre; e quella che è oggetto della fede e che tocca la capacità di giudizio sull’essere e sull’esistere, tocca i comportamenti. Lasciarsi giudicare dalla verità significa dunque essere disponibili a correggere o mutare modi di pensare e di agire che possono essere acquisiti e la cui revisione può costare fatica e sacrificio. Se il soggetto non è disposto a questo cammino interiore, sarà difficile qualunque approccio alla verità delle cose, dei valori, dei significati. E’ necessario aiutare a rendersi conto dei luoghi comuni, dei pregiudizi, di quella vita inautentica che tutti insidia e che Heidegger bene esprimeva nel “si” impersonale e spersonalizzante: “si dice” e “si fa”.

Questo atteggiamento di fondo è intrinseco e comune allo statuto e alle dinamiche della scienza e della fede, e certamente è una via reale per la  formazione dell’uomo.

 

b)         Vorrei ora mettere in evidenza un secondo elemento  che possiamo ricavare ad esempio dalla ricerca scientifica, ma che non è assente neppure nel cammino di fede: la fatica e il metodo. Il genio esiste, e risponde a suo modo a questi due imperativi, ma i geni non nascono tutti i giorni.

 

Parliamo allora della normalità che può essere anche segnata dalla genialità, ma che – comunque – resta nell’ordine di se stessa: l’esperienza insegna che senza fatica e metodo si va poco lontano, si fantastica ma non si arriva alla realtà, non si costruisce nulla. E la fatica e il metodo bisogna impararli ogni giorno, con pazienza e determinazione, sapendo che non ci si può avventurare sulle vie della scienza senza questo corredo. Il metodo può apparire forse noioso perché dice ordine, osservazione, riflessione, ripetizione, tempo: possiamo dire che è il contrario del “tutto e subito” che si respira in giro. Questi elementi non sono forse parte integrante non solo della ricerca ma del vivere stesso? Vivere significa soprattutto costruire, e non si costruisce dal tetto, ma dalle fondamenta che non sono visibili e appariscenti, ma nascoste e umili: ma decisive. La rincorsa al successo, alla riuscita, alla conclusione rapida e trionfale, piena di gratificazioni e di utili, è di solito un’illusione, e quando, per una serie di circostanze si realizza, non dura a lungo. Se prima non si è faticato con metodo  per il raggiungimento di un obiettivo, si deve faticare dopo per il mantenimento dello stesso. Sempre e comunque bisogna lavorare con ordine e impegno, anche quando si ha la possibilità di dedicarsi a ciò che più piace e che si sente più consono. Quanto ci sia bisogno di queste virtù umane è sotto gli occhi di tutti, spesso abbacinati e ingannati da miraggi opposti che illudono e deludono, generando rancore e angoscia.

 

c)                 Infine, guardando alla fede, entriamo nell’orizzonte pedagogico di fondo, premessa di ogni vera e autentica azione educativa. Come abbiamo ricordato, la fede  svela la meta ultima e definitiva dell’uomo e della storia, accompagna nel cammino terreno dalla terra al cielo. Essa risponde alle domande radicali del cuore, al suo calore nasce il fiore della speranza che dona senso all’esistere e  luce al mondo; in questo l’edificio della persona trova il suo fondamento, il progetto, il sostegno, lo scopo. L’incontro con Gesù, l’uomo perfetto perché vero Dio, diventa la ragione della nostra umanità, il compimento di tutto ciò che di bello e di buono, di vero e di nobile alberga nell’umanità e nella storia. La fede offre, come si diceva, il senso globale dell’uomo, della vita e del cosmo; l’unitarietà di significato consente di orientarsi all’interno della molteplicità del reale, dentro agli accadimenti improvvisi e variegati dell’esistenza. La fede unifica, dona una visione d’insieme che non annulla il particolare ma lo esalta nell’armonia del tutto di senso: è totalizzante ma per nulla totalitaria, perché il punto unificante è Cristo che è verità, libertà e amore. La cultura che ne è ispirata ha una sua coerenza interna, un’armonia, una struttura solida e plausibile, la sua razionalità ne risulta non solo elevata ma garantita; e la società che è informata da questa cultura integralmente umanistica, è una società coesa, aperta e veramente solidale. Com’ è noto la società, per essere tale, deve avere un’anima e questa non può essere di ordine economico, politico o funzionale,  ma solo di ordine spirituale ed etico. Solo questo nucleo è in grado di suscitare quel senso di appartenenza che resiste a fronte di difficoltà, crisi, sventure; è in grado di generare una storia comune, di far superare ogni rischio di fuga e di disgregazione. La compattezza, se diventa una gabbia che mortifica la persona, non è un bene, ma se è rispettosa allora diventa motivo di sicurezza e di stabilità per ogni membro, condizione perché ognuno possa realizzare se stesso. Comprendiamo che ad ispirare queste considerazioni è una concezione antropologica ispirata al Vangelo, una antropologia di tipo personalista non individualista: la differenza è evidente e decisiva sia per i singoli che per il modo di pensare la società. L’uomo non è una monade gettata per caso nel caos, un caos  abitato da innumerevoli altre monadi che vagano come scintille nella notte, ma è relazione, come Dio-Creatore è relazione di persone nell’ intimità del suo essere. Da questa origine deriva nell’uomo un indirizzo di marcia che, prima che essere un imperativo morale, è un’esigenza ontologica, scritta cioè nelle fibre del suo essere uomo. Seguire questa direzione intrinseca significa per la persona raggiungere se stessa, compiersi, creare una società ricca di relazioni positive come ho detto sopra. Viceversa,  allontanarsi significa negarsi a se stessa, e perdersi in una libertà innamorata di sé: l’individuo è destinato a trovarsi solo con se stesso, e la società che ne consegue sarà tendenzialmente frammentata e insicura, diventerà progressivamente paurosa e aggressiva, ripiegata e autoreferenziale, dove il prendersi in carico gli uni gli altri, nella quotidianità dei giorni e degli anni, sarà visto come un insopportabile attentato alla libertà individuale e alla felicità di ciascuno, o come un peso insostenibile per la collettività.

 

Viene da chiedersi se qualcuno possa interessato a  questo modo di vivere e a questo tipo di società. Non so rispondere con certezza a questa domanda che già di per sé suona assurda al buon senso comune. Una moltitudine non sembra preferibile ad una società. Ma se per un attimo volessimo prendere in considerazione la questione, si potrebbe fare un tentativo di lettura. E’ evidente che una società solidale, ricca di virtù, con un’identità solida, amata e aperta, che si nutre di riferimenti esemplari, di criteri morali universali, di gratuità relazionale, crea sicurezza nelle persone e sprigiona energie generose, limpide, creative, che non si lasciano facilmente ingannare e dominare. Genera un popolo che ha coscienza e nerbo per contrastare gli egoismi di qualunque natura, che è capace di giudizio critico e in grado di sacrificarsi per il bene comune. Viceversa, un agglomerato di mondi individuali non solamente non crea comunità, ma è terra dove si annida smarrimento e paura, e quindi fragilità; è un terreno friabile dove più facilmente prospera la furbizia e il raggiro, l’affare e la sete di dominio.

 

Cari Amici, vi ringrazio per la paziente attenzione e per il benevolo ascolto: ho cercato di offrire alcuni spunti che spero utili per ulteriori considerazioni e approfondimenti. Mi è caro concludere con alcune parole che il Concilio Vaticano II indirizzò agli uomini di pensiero e di scienza in chiusura della grande Assise nel dicembre del 1965:

“Un saluto specialissimo a voi, ricercatori della verità, a voi, uomini di pensiero e di scienza, esploratori dell’uomo, dell’universo e della storia, a voi tutti pellegrini in marcia verso la luce (…) Il vostro cammino è il nostro. I vostri sentieri mai risultano estranei a quelli propriamente nostri. Noi siamo amici della vostra vocazione di ricercatori, gli alleati delle vostre fatiche, gli ammiratori delle vostre conquiste (…) Anche per voi, dunque, noi abbiamo un messaggio, ed è questo: continuate a cercare, senza mai rinunciare, senza mai disperare della verità! (…) Senza stupirvi, senza accecare i vostri sguardi, noi vi offriamo la luce della nostra sorgente misteriosa: la fede. Colui che ce l’ha affidata, è il Maestro sovrano del pensiero, è quegli di cui noi siamo umili discepoli, è il solo che ha potuto e può dire: “Io sono la luce del mondo, io sono la via, la verità e la vita”. (…) Abbiate fiducia nella fede, questa grande amica dell’intelligenza! Rivolgetevi alla sua luce per conseguire la verità, tutta la verità! Questo è l’augurio, l’incoraggiamento, la speranza che vi esprimono, prima di separarsi, i Padri del mondo intero, riuniti in Concilio a Roma”.

 

Perugia, venerdì 11 marzo 2011

Lectio Magistralis.doc