«Famiglie in esilio. Ferite, ritrovate, riconciliate»

Per oltre vent’anni pastore di una grande città come Milano, il card. Carlo Maria Martini ha avuto numerose occasioni di contatto diretto con persone e famiglie. Incontrandole e ascoltandole, ha potuto incontrare e conoscere la varietà di situazioni familiari esistenti nel contesto di una società mutata nella coscienza degli ideali, dei valori e delle responsabilità, sia individuali che pubbliche, e di riflesso anche nella mentalità, nei comportamenti e negli stili di vita.

Anche la famiglia, per secoli struttura di riferimento del vivere sociale, è rimasta profondamente scossa in tutto questo rivolgimento di idee, costumi e prospettive. Il problema pastorale, di fronte a una situazione così problematica, emerge quindi con evidenza. Se poi, dalla famiglia nel suo complesso, si passa ai ragazzi e ai giovani, si delineano altri aspetti delle carenze e dei conflitti che agitano la famiglia d’oggi.

In questo libro il cardinale Martini, con le sue parole, ci ricorda che per essere e rimanere una famiglia cristiana, c’è un lungo percorso da compiere, nel bel mezzo dei problemi e delle sofferenze di cui è fatta la storia di ogni famiglia. Perché – come fa notare Giuliano Vigini nella Prefazione al volume, di cui anticipiamo alcuni stralci – non bisogna mai cedere alla tentazione che tutto sia perduto.

RIFLESSIONE: da Avvenire del 18 febbraio 2012  “Contro la «tentazione» della famiglia debole”

DUNS SCOTO, di Fernando Muraca

DUNS SCOTO Miglior film e il miglior attore protagonista attribuito ad Adriano Braidotti, con la regia di Fernando Muraca, vince all’International Catholic Film Festival di Roma “Mirabile Dictu” il “Pesce d’Argento” Sui tre premi attribuiti al festival Duns Scoto ne riporta due: Migliore film e migliore attore protagonista.

E’ stato selezionato su un totale di 746 film all’International Catholic Film Festival (dal 12 al 21 maggio a Roma presso l’Auditorium vaticano di via della Conciliazione) ideato e voluto da Liana Marabini, produttrice, regista ed editrice, sotto l’Alto patronato del Pontificio Consiglio per la Cultura.

BREVISSIMA TRAMA:

Duns Scoto, giovane e brillante professore francescano all’Università di Parigi, è costretto a scappare dalla città francese perchè non è disposto a firmare la lettera di Filippo il Bello contro il Papa.

Dopo qualche ritornerà e potrà dimostrare in una celebre disputa il valore delle sue idee sull’Immacolata Concezione di Maria.

CHI è DUNS SCOTO???

TRAILER (clicca sull’immagine)


 

II DOMENICA DI QUARESIMA Lectio – Anno B

Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18

In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».  Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».

Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.  L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi. Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.

Aspetti di esegesi

Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito. Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2). Abramo esegue il volere divino.

«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).

La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8). L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.

Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio. All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza. È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà. Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.

«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).

Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento. I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).

«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20). La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21). L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19). In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio. La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).

Seconda lettura: Romani 8,31-34

Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

 

La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13). Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.

Aspetti di esegesi

«Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).

L’insieme è un inno di fiducia. Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente. Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto. L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande. Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi. Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso. La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote. Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi. La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.

Vangelo: Marco 9,2-10

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.  Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Esegesi

Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20). Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro. È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.

Aspetti di esegesi

Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù. Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio. Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.

Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23). Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione. La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione. Gesù rimane identico mostrandosi glorioso. Lo splendore di Gesù è celeste. La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina. I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.

«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4). Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie. Essi discorrono con Gesù. Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).

«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati». Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6). È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.

«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre. La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.

Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo. «E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).

Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione. L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato. I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).

Meditazione

Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita. In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito. Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio. E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana. Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato. Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino. Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio. È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.

Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli. È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù. Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33). La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino. È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29). Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.

Notiamo solo alcuni elementi del racconto. Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’. Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio. Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù. In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).

Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte. E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte. Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.

Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3). Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo. Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza. Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore. È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).

Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena. E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto. Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4). C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola. E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge. Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio. Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola. E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).

Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze. La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5). L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo. E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia. Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro. Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32). Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.

Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare. Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme. Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8). Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua. Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino. Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31). Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta. Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.

Preghiere e racconti

Il Tabor e il Getsemani

Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.

Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.

(Henri J.M. NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).

Domenica della Trasfigurazione

L’odierna domenica, la seconda di Quaresima, è detta della Trasfigurazione, perché il Vangelo narra questo mistero della vita di Cristo. Egli, dopo aver preannunciato ai discepoli la sua passione, “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2). Secondo i sensi, la luce del sole è la più intensa che si conosca in natura, ma, secondo lo spirito, i discepoli videro, per un breve tempo, uno splendore ancora più intenso, quello della gloria divina di Gesù, che illumina tutta la storia della salvezza. San Massimo il Confessore afferma che “le vesti divenute bianche portavano il simbolo delle parole della Sacra Scrittura, che diventavano chiare e trasparenti e luminose” (Ambiguum 10: PG 91, 1128 B).

Dice il Vangelo che, accanto a Gesù trasfigurato, “apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui” (Mt 17,3); Mosè ed Elia, figura della Legge e dei Profeti. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Ma sant’Agostino commenta dicendo che noi abbiamo una sola dimora: Cristo; Egli “è la Parola di Dio, Parola di Dio nella Legge, Parola di Dio nei Profeti” (Sermo De Verbis Ev. 78,3: PL 38, 491). Infatti, il Padre stesso proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5).

La Trasfigurazione non è un cambiamento di Gesù, ma è la rivelazione della sua divinità, “l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 357). Pietro, Giacomo e Giovanni, contemplando la divinità del Signore, vengono preparati ad affrontare lo scandalo della croce, come viene cantato in un antico inno: “Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre”.

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 20.03.2011).

L’immagine tra luce e ombra

La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione. Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili. Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata. La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce. Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte. Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata. L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti. Tutto il resto deve essere svelato e illuminato. Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre. […] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa. La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile. I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.

I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori. Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato. Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini. Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore. L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati. È piuttosto essa a illuminare. La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori. L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie. Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.

L’immagine è tra la luce e l’ombra. E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra. In ogni caso la rivelazione non è il riflettore. La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo. I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce. È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.

La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.

(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E. AFFINATI et al., Saper sperare.  Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).

Una sola tenda

Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole. Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno. Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso. Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.

Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21). Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto. Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva […].

Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui. San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano. Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia. Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto. Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui. Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui. Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia. Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione. Credeva fosse bene ciò che diceva. Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola». Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo. All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi. Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.

(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 576-578)

Riconoscere Cristo

Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte. C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle. Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità. Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge. Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.

La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura. Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro. Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.

(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).

Ancora e sempre sul monte di luce

Ancora e sempre sul monte di luce

Cristo ci guidi perché comprendiamo

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Comunità monastica Ss. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003

QUARESIMA II QUARESIMA ANNO B

Rapporto Unicef: “dove la scuola è un lusso”

La stima è dell’Unicef, contenuta all’interno del rapporto “La condizione dell’infanzia nel mondo 2012: Figli delle città”, presentato oggi in contemporanea in tutto il mondo.

Le opportunità per chi vive nelle aree urbane non sono accessibili in modo uniforme. In Egitto, nel biennio 2005-2006, il 25% dei bambini nelle aree urbane ha frequentato la scuola materna, contro il 12% dei bambini nelle aree rurali. Appena il 4% dei bambini appartenenti alla fascia del 20% delle famiglie urbane più povere ha frequentato la scuola materna.

A Delhi, in India, poco più del 54% dei bambini degli slum frequentava la scuola primaria (dsto  2004-2005), rispetto al 90% dei bambini nel resto della metropoli.

In Bangladesh, secondo dati del 2009, le differenze sono ancora più pronunciate al livello dell’istruzione secondaria: il 18% dei bambini degli slum frequenta la scuola secondaria, rispetto al 53% delle altre aree urbane e al 48% delle zone rurali

Le famiglie più povere fanno fatica a pagare le tasse scolastiche: una recente ricerca condotta a San Paolo (Brasile), Casablanca (Marocco) e Lagos (Nigeria), ha riscontrato che il 20% delle famiglie più povere spende oltre un quarto del reddito familiare per mantenere i figli a scuola.

Si stima che oltre 200 milioni di bambini sotto i cinque anni di età, nei Paesi in via di sviluppo, non arrivino a raggiungere il proprio potenziale in termini di sviluppo cognitivo

67 milioni di bambini in età scolare (dato 2008) non frequentano un solo giorno di lezione nella scuola primaria: il 53% sono bambine.

Visualizza Rapporto: UNICEF 2012 Figli delle città – Scheda dati 2 Istruzione – Unicef Italia

La religiosità in Italia: tanti se e tanti ma… i risultati di una indagine

Il tema della religiosità in Italia è uno dei capitoli del volume edito da Vita e Pensiero, «Uscire dalle crisi. I valori degli italiani alla prova», che raccoglie i risultati della ricer­ca sugli orientamenti di valore dei cittadini europei, condotta dall’European Values Studies (Evs).

Dall’indagine emerge che il 78% degli italiani è cattolico ma la vita dopo la morte crea dubbi

Credono in Dio, si ritengono religiosi, dan­no importanza alla fede nella loro vita, ma mettono in dubbio l’esistenza del­l’inferno, del paradiso e persino di una vita do­po la morte. È una fotografia con diverse con­traddizioni quella scattata dalla quarta indagi­ne sui valori degli europei, i cui risultati sono contenuti nel volume «Uscire dalle crisi. I valo­ri degli italiani alla prova» (edito da Vita e Pen­siero) curato dal sociologo Giancarlo Rovati do­cente dell’Università Cattolica. Uno dei capi­toli del libro, che sarà al centro del convegno di oggi, nella sede milanese dell’ateneo cattolico, è dedicato alla «realtà religiosa in Italia», affi­dando al professor Clemente Lanzetti, ordina­rio di Sociologia della religione all’Università Cattolica, l’analisi dei risultati.

«Attualmente il 78% della popolazione italiana maggiorenne – si legge – si riconosce nella fe­de cattolica e soltanto due italiani su cento si professano di altra religione». Un dato in leg­gero calo (-3,1%) rispetto a un’indagine con­dotta dieci anni prima, ma che farebbe inten­dere una consistente presenza di cattolici nel nostro Paese. L’uso del condizionale è però d’obbligo, soprattutto quando l’indagine af­fronta temi dottrinali, etici e morali legati alla fede cattolica. Si scopre, così, che se un confor­tante 59% degli italiani crede in «Dio persona­le e creatore che ama l’essere umano» (affer­mazione in linea con la fede cattolica), c’è un 24,6% per cui Dio è «qualche forma di spirito o forza vitale», mentre un 14,8% addirittura non sa ri­spondere.

Meno lusinghiero il risul­tato sul quesito «se esista o meno una sola religione vera», quella cattolica in particolare. Solo il 20,1% ri­sponde sì, a cui va aggiun­to un 26% che aggiunge che «anche le altre religio­ni contengono elementi di verità». A questo 46,1% si contrappone un 40,6% per il quale «non c’è una sola religione vera, ma tutte le grandi religioni contengono alcune verità fon­damentali ». Con molta probabilità, sottolinea la ricerca, quest’ultima risposta potrebbe na­scere dalla presenza di persone di altre religio­ni e della necessità di trovare con loro elemen­ti comuni per creare una comunità. Qualche sorpresa arriva anche dalle risposte ai quesiti su alcune verità di fede. Tra chi si defi­nisce genericamente religioso il 67,3% crede nell’esistenza della vita dopo la morte, mentre tra chi si dichiara praticante si arriva al 75,5%. Le cose non vanno meglio per paradiso e in­ferno: tra i praticanti ci credono rispettivamente il 70,5% e il 58,3%, mentre tra chi si dice religioso scendiamo al 60,6% e al 49,7%. Vi è addirittura un 17,1% di praticanti che crede nella reincarnazio­ne.

Insomma italiani religiosi, cattolici, ma con una fede che spesso diventa quasi individuale. «Questo pro­cesso – si sottolinea nella ricerca – non porta ne­cessariamente a posizioni di individualismo in campo religioso, né sta portando a una pro­gressiva irrilevanza della dimensione religiosa, ma a un diverso modo di rapportarsi a essa. Ba­sti pensare che, nonostante si registri un calo in percentuale negli ultimi dieci anni su molti indicatori di religiosità istituzionale, non risul­ta diminuire l’importanza che le persone dan­no alla religione nella propria vita»: il 32,8 ri­sponde «molto» e il 38,9» dice «abbastanza» per un totale di 71,7% degli intervistati. E anche sull’idea di una progressiva secolarizzazione dell’Italia, il rapporto invita alla cautela. «Gli i­taliani sono significativamente al di sotto del li­vello medio generale di secolarizzazione – si spiega ancora nella ricerca –, posizionandosi al 39° posto in una classifica di 48 Paesi analizza­ti ». Analoga situazione per quanto riguarda la partecipazione ai riti religiosi. «Una partecipa­zione che negli ultimi quarant’anni è pressochè stabile, oscillando attorno al 30%».

La stessa ricerca non trae conclusioni, anche se sottolinea come «quando si tratta di argo­menti religiosi, oggi molti preferiscono con­servare un atteggiamento di ‘ricerca’». Si trat­ta di «un cambiamento riconducibile al pro­cesso crescente di individualizzazione del cre­dere, che ha una pluralità di esiti in ambito re­ligioso, e che non coincide però con un gene­rale deprezzamento dei valori religiosi, spiri­tuali e morali». Con molta probabilità è il ter­reno da cui ripartire per una nuova evangeliz­zazione anche in Italia.

da Avvenire 28/02/12

l’ICI-IMU alla chiesa… la posizione dei Salesiani di Don Bosco

L’emendamento del governo sul pagamento dell’Imu per gli immobili appartenenti alla Chiesa cattolica parla chiaro;  anche la Chiesa non è rimasta esente dalla crisi finanziaria che sta investendo l’Italia. Il decreto vede coinvolti gli istituti paritari d’ispirazione cattolica e tutti i supporti sociali ad essa collegati: volontariato, assistenza sanitaria, mense. Ma è soprattutto la scuola il punto nodale da affrontare, considerando che molte di esse pagando L’Imu fallirebbero e sarebbero destinate alla chiusura, sia perché le rette, nella gran parte dei casi, servono semplicemente a coprire il costo di gestione, sia perché molte di esse usano spazi ampi, per esempio ex conventi, per cui secondo il calcolo della tassa si genererebbero cifre altissime da pagare.

Oggi a Palazzo Madama il presidente del Consiglio, Mario Monti, parlando specificamente delle scuole, ha affermato che: «non è corretto chiedersi se le scuole in quanto tali siano esenti» dal pagamento dell’Imu, «bensì quali siano esenti e quali sottoposte alla disciplina» introdotta con l’emendamento. «La risposta è univoca – ha aggiunto Monti – sono esenti quelle che svolgono la propria attività in modo concretamente non commerciale».
Il premier ha anche indicato i «parametri» per considerare non commerciali le scuole: «l’attività paritaria è valutata positivamente se il servizio è assimilabile a quello pubblico», in particolare sul piano dei programmi scolastici, dell’applicazione dei contratti nazionali e su quello della «rilevanza sociale». Inoltre il bilancio dovrà essere «tale da preservare in modo chiaro la modalità non lucrativa»; e quindi «l’ eventuale avanzo sarà destinato all’attività didattica». da “Corriere della Sera” del 27/02/12

Il problema ci tocca molto da vicino e dai Salesiani arriva una netta posizione rispetto al decreto che sostiene che l’eventuale applicazione dell’ICI-IMU alle scuole paritarie non sarebbe giusta né equa per i seguenti motivi:

– Perché contrasta con l’art. 1, comma 1 della Legge 62/2000
“Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, secondo comma, della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali. La Repubblica individua come obiettivo prioritario l’espansione dell’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall’infanzia lungo tutto l’arco della vita”.Esse, dunque, hanno i medesimi doveri e diritti delle scuole statali, poiché svolgono un servizio pubblico e concorrono ai medesimi fini.
– Perché contrasta con l’art. 1, comma 8 della Legge 62/2000
“Alle scuole paritarie, senza fini di lucro, che abbiano i requisiti di cui all’articolo 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, è riconosciuto il trattamento fiscale previsto dallo stesso decreto legislativo n. 460 del 1997, e successive modificazioni”.Per tale decreto “non si considerano commerciali le attivita’ svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali” (art. 5, comma 1 lett.a D.L. 460/1997).Ad esse dunque, si applica il medesimo trattamento fiscale previsto per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, poiché ne hanno i medesimi requisiti.
– Perché contrasta con l’art. 1, comma 3 del Decreto Legislativo 76/2005
“La Repubblica assicura a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età. Tale diritto si realizza nelle istituzioni del primo e del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, costituite dalle istituzioni scolastiche e dalle istituzioni formative accreditate dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano, anche attraverso l’apprendistato di cui all’articolo 48 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, ivi comprese le scuole paritarie riconosciute ai sensi della legge 10 marzo 2000, n.62, secondo livelli essenziali di prestazione definiti a norma dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”.Non possono essere considerate “commerciali” quelle attività che erogano un servizio che ha rilievo pubblico, è destinato all’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e formazione, tende ad assicurare fondamentali diritti di cittadinanza, come il diritto allo studio e il diritto all’istruzione e formazione professionale.
– Perché contrasta con l’art 118, comma 4 della Costituzione
“Stato, Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.Si pone, dunque, in contrasto con questo principio costituzionale ogni decisione legislativa che, anziché favorire, abbia l’effetto di rendere ancora più difficili l’attuazione di attività educative che vengono svolte dal privato sociale, nell’interesse generale della collettività e non per fini di lucro, e sono espressione del principio di sussidiarietà.Roma, 24 febbraio 2012 La Conferenza degli Ispettori Salesiani d’Italia.

Sulla stessa scia si pongono altre opinioni secondo cui: “Mettere in crisi tutto questo non sarebbe più uno strumento di giustizia tributaria ma produrrebbe un problema ancora più vasto: la fine di una parte stessa del sistema scolastico italiano. Per troppi anni la vecchia Ici ha ingiustamente esentato le attività economiche della Chiesa: ciò non significa che oggi si debba pareggiare un vecchio conto penalizzando chi istruisce e segue molti dei nostri figli. Benestanti e non, è bene ricordarlo”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Giovani, Web ed educazione alla fede”

Il laboratorio “Giovani, web ed educazione alla Fede” a Roma il 16 e 17 marzo 2012
presso Domus Mariae – Palazzo Carpegna Via Aurelia 481

è uno spazio di riflessione rivolto a quanti, a vario titolo, per lavoro o per passione, operano nel web a servizio della pastorale delle parrocchie e delle Diocesi in Italia.
Una riflessione per esplorare le nuove strade dell’educazione alla fede trasmessa grazie anche alle opportunità del web.

Il programma e l’iscrizione sono scaricabili on-line.

 

 

 

 

 

 

 

Per informazioni: Tel. 06.66.398.430        E-mail: giovani@chiesacattolica.it

Messaggio di Benedetto XVI per la quaresima 2012

«Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (Eb10,24)

Quest’anno il Santo Padre parte dalla Lettera agli Ebrei che ci invita a meditare sulle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, soffermandosi in particolare sul senso della carità cristiana ai giorni nostri.
Il suo messaggio vuole essere un invito a far tesoro del periodo quaresimale in modo tale che diventi momento propizio per ognuno di noi di accostarsi alla Parola di Dio e rinnovare il proprio cammino di fede.

 

Operare la carità vuol dire sentirsi responsabili del fratello che ci sta accanto, anche del suo bene spirituale: “Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene (…) Oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell’altro e a tutto il suo bene”

Ci invita inoltre a riscoprire il dono della reciprocità: L’attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli. Quando un cristiano scorge nell’altro l’azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16)” …

Ci esorta infine a stimolarci a vicenda nell’opere della carità per camminare insieme verso la santità: “Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell’amore e delle buone opere.

 

Ecco la versione integrale del Messaggio di Quaresima

Commento al messaggio di Quaresima di Marina Corradi

 

“La scuola cattolica avvicina le generazioni”

Mons. Mariano Crociata ha aperto i lavori del Convegno nazionale “Educare alla vita buona del Vangelo a scuola e nella Formazione Professionale”, organizzato dal Centro Studi per la Scuola Cattolica (CSSC) a Roma il 17-19 febbraio.

Il Segretario Generale della CEI è intervenuto con una relazione dal titolo “La proposta culturale ed educativa della Chiesa Italiana: gli orientamenti per il decennio”, che qui vi proponiamo.

“La relazione educativa ha un ruolo tanto decisivo quanto di delicato equilibrio: la sua necessità è direttamente proporzionale alla discrezione della presenza e alla graduale non direttività dell’iniziativa. Chi cresce ha bisogno dell’educatore, per diventare ciò che è, a misura dell’efficacia indiretta della sua presenza. Tra educatore ed educando si produce un sofisticatissimo gioco, per così dire, di libertà in cui si intrecciano imitazione e creatività, assimilazione e inventiva. Leggiamo negli Orientamenti: «il bambino impara a vivere guardando ai genitori e agli adulti. Si inizia da una relazione accogliente, in cui si è generati alla vita affettiva, relazionale e intellettuale» (EvbV 27). In tal senso, educare «esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, che sono protagonisti della relazione educativa, prendono posizione e mettono in gioco la propria libertà. Essa si forma, cresce e matura solo nell’incontro con un’altra libertà» (EvbV 26).

Ciò che è decisivo è, perciò, la qualità dell’educatore, la sua reale maturità, «l’autorevolezza della sua persona» (EvbV 29), che lo rende un testimone. Il suo modo di essere è il vero principio attivo della sua stessa opera educativa. «L’educatore – così leggiamo al n. 29 di EvbV – è un testimone della verità, della bellezza e del bene, cosciente che la propria umanità è insieme ricchezza e limite. Ciò lo rende umile e in continua ricerca. Educa chi è capace di dare ragione della speranza che lo anima ed è sospinto dal desiderio di trasmetterla». Una figura testimoniale diventa capace di far crescere una libertà nella responsabilità e una coscienza come riferimento unificante di una personalità capace di confrontarsi con la vita e di affrontare la realtà intera, se – appunto – vivere da persone mature è capacità di stare al mondo cogliendone il senso, apprezzandone il valore, facendosene carico secondo dovere e rispetto. Qui il senso cristiano della vita ha bisogno di essere esplicitato a partire da relazioni interpersonali che ne trasmettano il sapore e ne dicano il valore e la promessa.”

Relazione: La proposta culturale ed educativa della Chiesa Italiana

VII DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 43,18-19.21-22.24-25

 

Così dice il Signore: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi. Invece tu non mi hai invocato, o Giacobbe; anzi ti sei stancato di me, o Israele. Tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità. Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati».

 

 

Questa lettura è tratta dalla seconda parte del libro di Isaia, dalla sezione che annunzia la liberazione dalla schiavitù in Babilonia e il ritorno nella terra dei padri (cc. 40-44).

I vv. 18-19 contengono una esortazione a dimenticare il passato e ad aprirsi alla speranza, volgendo lo sguardo verso il futuro. La dimenticanza del passato qui intesa non è certamente quella che riguarda le imprese salvifiche di Dio, poiché quella memoria deve invece nutrire la fede nel futuro. Bisogna invece dimenticare quel modo di ricordare che alletta l’immaginazione e imprigiona la volontà, distogliendola dalle decisioni che riguardano il presente. Il profeta esorta a volgere lo sguardo verso il futuro, perché Dio è sul punto di fare una cosa nuova. Con immagine poetica, il momento attuale è paragonato alla primavera, quando sugli alberi germogliano le gemme e si preparano a sbocciare. Con altre immagini poetiche di grande effetto, è detto che si apriranno strade nel deserto e sgorgheranno sorgenti di acqua nella steppa, intendendo dire che sarà reso possibile il ritorno degli esiliati attraverso il deserto e la steppa.

— Il v. 21 dice quale sarà l’effetto più bello del ritorno dall’esilio: il popolo eletto tornerà a cantare le lodi di Dio nella sua terra.

— I vv. 22 e 24-25 assicurano che Dio stesso farà quello che ha raccomandato di fare al suo popolo: cancellerà dalla sua memoria i misfatti di Israele, non ricorderà più i suoi peccati. Ciò vuol dire che il popolo rientrato dall’esilio inizierà a vivere in piena armonia con il suo Dio. Come si vede, le grandi novità e la remissione dei peccati di questa profezia hanno avuto pieno adempimento nella persona di Gesù, secondo la nostra lettura evangelica.

 

Seconda lettura: Corinzi 1,18-22

 

Fratelli, Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no». Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì». Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì». Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria. È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.

La nostra seconda lettura appartiene alla seconda lettera di S. Paolo ai Corinzi, che eccelle tra le opere dell’antica letteratura greca. Il nostro brano si distingue in essa per la sua commossa eloquenza.

Paolo è venuto a sapere che, nella comunità di Corinto, dei mestatori si agitano per scalzare ogni suo credito e il suo prestigio di apostolo. Sfruttano per questo ogni pretesto, tra cui il fatto che egli non ha mantenuto la promessa di ritornare a Corinto, dopo che se ne era allontanato per il suo dovere apostolico. Mettono in ridicolo quel suo promettere e non mantenere, quasi che, per lui, il «sì» equivalga al «no». Paolo replica dichiarando che quest’accusa, per lui e per i suoi collaboratori Silvano e Timoteo, rasenta l’assurdità: essi non possono mescolare il «sì» e il «no», perché contraddirebbero il vangelo di Gesù Cristo (cf. Mt 5,37) e contraddirebbero soprattutto l’esempio personale del Signore Gesù, che in tutta la sua vita ha sempre obbedito prontamente al Padre, al punto che egli può essere definito un unico continuo «sì» (vv. 18-20).

In tal modo, il contenuto di un’accusa che, in se stessa, poteva essere considerata un trascurabile pettegolezzo, fornisce a Paolo l’occasione per riflettere sul comportamento di Gesù Cristo nei confronti del Padre. E su questa riflessione si innesta l’esortazione ai Corinzi di saper dire sempre il loro «Amen» (cioè il loro «sì») a tutto ciò che Dio può a loro chiedere. Questa deve essere per tutti noi una norma continua, perché tutti, seguaci di Cristo abbiamo ricevuto l’unzione, che ci ha assimilati a lui per mezzo dello Spirito (vv. 21-22).

Anche questi pensieri si armonizzano con il messaggio della lettura evangelica, che parla della novità portata tra gli uomini da Gesù e dal suo vangelo.

Vangelo: Marco 2,1-12

 

Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola. Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati».  Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?». E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Alzati, prendi la tua barella e cammina”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua».  Quello si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».

 

 

Esegesi

Il racconto della guarigione di un paralitico introduce, nel vangelo di Marco, la sezione delle così dette dispute galilaiche, che vanno da 2,1 a 3,6. La sezione, che segue quella in cui è descritta l’accoglienza trionfale di Gesù da parte delle folle della Galilea (1,14-15), ci fa conoscere il crescente contrasto che si stabilisce tra Gesù e le guide religiose del popolo ebraico. Motivo fondamentale del contrasto è il potere che Gesù si attribuisce, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), di voler riportare al senso originario le disposizioni della legge mosaica, di saperne dare una interpretazione nuova, di portare a compimento la rivelazione fatta ai padri e di realizzare l’attesa messianica.

— I vv. 1-2 ci danno la cornice dell’avvenimento: Gesù è rientrato a Cafarnao ed è probabilmente ospite nella casa dei discepoli Simone e Andrea. Gran numero di gente è accorsa per ascoltarlo ed egli «annunziava loro la parola»; proclamava, cioè il suo vangelo.

— I vv. 3-4 descrivono, con vivace semplicità, l’azione di quattro uomini che, impediti di giungere a Gesù a causa della folla, dal tetto scoperchiato gli calano davanti un paralitico. Il gesto era così eloquente per se stesso, che non aveva bisogno di parole esplicative: ciò che si chiedeva era la guarigione dello sventurato. Né i padroni di casa né  Gesù accennano a una protesta per i danni inferti all’edificio e per l’interruzione imposta al discorso. Sembra di capire che i primitivi narratori dell’episodio abbiano visto che c’era continuità essenziale tra l‘annunzio della parola e la guarigione dei malati. La stretta unione di queste due cose è chiaramente espressa in questa frase di Luca, che parla della missione affidata da Gesù ai Dodici: «E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2).

— Il v. 5 è teologicamente molto ricco, perché, ci presenta Gesù nella pienezza dei suoi poteri speciali: egli vede la fede del malato e dei suoi portatori; garantisce al paralitico la remissione dei peccati. La fede è vista da Gesù nel gesto del paralitico e dei suoi portatori che si affidano totalmente a lui, superando ogni ostacolo e senza neppure il bisogno di parlare. Per rispondere a quella fede, Gesù attinge al massimo del suo potere concessogli dal Padre: accoglie il paralitico con l’appellativo tenero di figliolo e gli da l’annunzio che gli sono rimessi i peccati. Con queste parole, Gesù non stabilisce uno stretto rapporto tra peccati personali e malattia in quel sofferente, ma richiama certamente alla memoria il principio a tutti noto che la radice prima di tutti mali dell’uomo consiste nel peccato. Contemporaneamente annunzia che egli per questo è venuto: per sconfiggere il peccato e iniziare una nuova fase della storia umana.

A questo punto, i vv. 6-7 interrompono il racconto del miracolo e introducono la presenza degli scribi (che rappresentano l’intera categoria delle guide spirituali del popolo) questi sono ben lontani dall’accettare l’insegnamento di Gesù e, in cuor loro, non esitano ad accusarlo di bestemmia. Il loro atteggiamento è dunque in netto contrasto con la dispo-nibilità a credere della folla.

Nei vv. 8-9, opponendosi all’incredulità degli scribi, Gesù svela i suoi poteri sovrumani: legge nei loro pensieri (ciò che è possibile solo a Dio) e presenta il suo intervento sulla malattia come prova del suo potere di rimettere i peccati.

Nei vv. 10-11, alle parole seguono i fatti: Gesù comanda al paralitico di prendere lui stesso il suo giaciglio e di andarsene a casa. Dice anche che questo miracolo dimostrerà con evidenza che egli, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), ha davvero il potere di rimettere i peccati. Viene così enunciato il principio che i miracoli di Gesù sono segni visibili di avvenimenti e realtà che trascendono ciò che si tocca e si vede: l’evangelista Giovanni chiamerà infatti segni tutti i miracoli di Gesù.

Nel v. 12, che conclude il nostro racconto, la folla esprime il suo stupore dichiarando la sua apertura alla fede: dicendo che non hanno mai visto nulla di simile, insinuano che in Gesù si sta realizzando qualcosa di assolutamente nuovo, vale a dire l’attesa messianico-escatologica. Nulla è detto degli scribi, suggerendo così che essi sono rimasti murati nella loro incredulità.

Meditazione

Le letture di oggi si aprono con quella bella pagina del libro di Isaia, pronunciate da un profeta, chiamato dagli studiosi per convenzione Secondo Isaia (perché le sue parole sono raccolte nella seconda parte del libro di Isaia, dal capitolo 40 al capitolo 55), che vive nella difficile situazione dell’esilio babilonese. Sono parole sorprendenti, perché in contrasto con la sfiducia e la rassegnazione che Israele vive a Babilonia. Dio non è insensibile al dolore e allo smarrimento degli uomini, neppu­re lascia il suo popolo prigioniero del peccato e della sfiducia. Ma spesso nei momenti difficili non si sa sollevare lo sguardo da se stessi, si è come imprigionati dal proprio io, rimpiangendo un passato che sembra più felice dell’oggi, impauriti davanti a un futuro incerto. «Non ricordate più le cose passate, non pensate più a quelle antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43, 18-19). Il Secondo Isaia ripete più volte parole simili e oggi le ripete a noi. Abbiamo bisogno di queste parole, perché spesso non ci accorgiamo dell’opera di Dio, della forza creatrice della sua parola. Rimaniamo pri­gionieri del pessimismo, perché aprire gli occhi e il cuore al Signore e alla sua opera impegna e libera dall’abitudine a guardare solo se stessi e il proprio piccolo mondo. Nel sacramento della riconciliazione, ma anche all’inizio di ogni liturgia eucaristica, noi riceviamo quel perdono gratuito, di cui abbiamo ascoltato: «Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati». Ecco da dove parte la «cosa nuova» che Dio è venuto a creare: un perdono immeritato che crea in ognuno un cuore nuovo e una vita nuova.

Il Vangelo di oggi, che vede di nuovo Gesù a Cafarnao nella casa di Pietro, realizza il grande dono del perdono di Dio annunciato dai pro­feti attraverso Gesù, che libera dal peccato e guarisce. Tante persone si radunano e si dirigono verso quella casa. Nei loro volti si legge la voglia di star bene e di essere finalmente felici. Anche se solo un gruppo rie­sce ad entrare, il clima è comunque di festa. La presenza di Gesù allar­ga sempre il cuore alla speranza, crea tranquillità e gioia. In verità quelle persone si erano accorte che stava sorgendo una cosa nuova. E infatti la loro attenzione si era rivolta verso quel giovane profeta. Certo, vedendo tutta questa folla accalcarsi davanti alla casa dove sta Gesù, viene da chiedersi: non dovrebbe essere così per ogni nostra parroc­chia, per ogni nostra chiesa, per ogni nostra comunità? Non dovrebbe essere il cuore di ciascuno di noi come una porta per chiunque ha biso­gno di amore e di sostegno?

Il Vangelo parla di un gruppetto di uomini che portano un malato davanti a Gesù. Sembra suggerire a noi, spesso distratti ed egocentrici, che i malati e i poveri hanno bisogno che qualcuno li aiuti, che stia loro vicino, che si interessi davvero della loro vita e della loro condizione e li sappia portare da Gesù. In quegli uomini noi vediamo i discepoli di Gesù, che con generosità e intelligenza portano davanti a lui il dolore del mondo ovunque essi sono. Quel gruppetto di amici veri, non riu­scendo ad entrare nella casa ove stava Gesù a motivo della grande folla, si arrampicano sul tetto (i tetti erano in realtà a forma di terrazza, spes­so fatta di travi, coperte di canne, rami, sterpi e terra, a una distanza l’una dall’altra da rendere possibile l’apertura di uno spazio sufficiente per calarvi un grande cesto), lo scoperchiano e con delle corde calano il malato davanti a Gesù. Davvero, l’amore non conosce ostacoli, fa tro­vare strade anche le più impensate, rende intelligenti! E così quel mala­to viene posto al centro di quella casa. Per la gente è il centro fisico, per Gesù diviene il centro delle sue attenzioni. Appena lo vede e vede la fede dei suoi amici, lo accoglie e gli dice: «Figlio, ti sono perdonati i tuoi peccati». Sono parole di perdono, ossia di un’accoglienza che tocca le radici della nostra vita.

Ma c’è una grande incomprensione. Come può perdonare quell’uo­mo? Solo Dio perdona. Egli bestemmia e quindi si contrappone a Dio stesso. Nel perdono e nella guarigione si rivela la forza del regno di Dio a cui Gesù ha dato inizio. Tuttavia tra i presenti c’è chi pensa che quell’uomo ha bisogno di salute, non di perdono. No, potremmo dire: anche i malati, i deboli, i poveri hanno un cuore, hanno un’anima. E la malattia tocca spesso anche l’interno dell’uomo, non solo l’esterno. Essi non sono un caso sanitario o sociale da risolvere, non hanno biso­gno solo di assistenza, sono fratelli e sorelle da accogliere e da amare fino in fondo. Parafrasando un’affermazione evangelica si potrebbe dire: non di solo pane vivono i poveri, ma anche di amore. Sì, i poveri hanno bisogno di affetto e di compagnia. Gli scribi, quelli di ieri e quel­li di oggi, attenti solo a se stessi e scrupolosamente osservanti della legge, si scandalizzano di una misericordia così larga, di cui solo Dio sarebbe capace. Essi accettano anche che si dia qualcosa a quel malato, persino la guarigione, ma non il perdono. Insomma, i bisognosi vanno aiutati, non messi a tavola con noi. I cuori avari di quel mondo e del nostro non riescono ad accettare una misericordia senza limiti. Gesù, invece, che ama senza confini, non getta un’elemosina a quel malato e poi va via; si commuove e guarisce quel malato nel cuore e nel corpo; al perdono aggiunge la guarigione: «Dico a te, alzati, prendi la tua barella e va a casa tua». La parola di Gesù compie il miracolo di donare la guarigione totale a quel malato reintegrandolo nella sua piena dignità. Quel malato aveva bisogno, come ciascuno di noi, di perdono e di guarigione. Del resto a che serve la salute fisica se si è cattivi nel cuore? A che serve guadagnare il mondo intero, se poi si perde l’anima? Eppure noi siamo arrivati sino a coniare quel povero e ridicolo detto: «quando c’è la salute, c’è tutto!».

Il Vangelo insegna che la vita sarà migliore se mettiamo al centro dei nostri pensieri il Signore e i poveri. E metterli al centro vuol dire sentir­li come nostri parenti. Ma come, i poveri nostri parenti? Si potrebbe obiettare. Sì, questo è il vero cambiamento richiesto a noi e al mondo intero. E non è un caso che Gesù usi il termine «fratello» per indicare sia i discepoli che i poveri: è la manifestazione di un legame inscindibi­le tra Chiesa e poveri. Aveva ragione la gente di Cafarnao nel dire: «Non abbiamo mai visto nulla di simile». In effetti anche oggi, noi e il mondo, abbiamo bisogno di vedere cose come queste, abbiamo bisogno di vede­re che i poveri e i malati siano messi al centro delle nostre preoccupa­zioni e siano risanati nel cuore e nel corpo. Se pensiamo al dramma di un mondo diviso tra pochi ricchi e un numero sempre crescente di poveri, comprendiamo quanto ci sia bisogno che questo Vangelo sia ancora annunciato e soprattutto realizzato. E necessario continuare ad ascoltarlo e a proclamarlo. Se questo avviene, anche noi potremo vivere la gioia di quella gente di Cafarnao. Per questo, come dice Paolo ai Corinzi, anche il nostro parlare sia «sì», lo stesso «sì» con il quale Dio ha realizzato in Gesù tutte le sue promesse. È il «sì» dell’ascolto del Signore, dell’«Amen» di un’adesione piena alla sua misericordia, che vuole la salvezza di tutti gli uomini. Lo diciamo spesso «Amen» nelle risposte della preghiera, ma è necessario che quell’amen si dica nella vita, perché il mondo sia pervaso dall’amore di Dio per tutti.

Preghiere e racconti

L’ascolto del deserto

“L’Arabo, quando giunge in mezzo al deserto, ferma il cammello, scende e mette l’orecchi sulla sabbia.

– Che fai?

– Ascolto il deserto.

– Sì, ascolto il deserto che piange. E piange, perché vorrebbe essere una immensa, sconfinata prateria”.

E vennero conducendo a lui un paralitico che era portato da quattro persone (Mc 2,3)

La guarigione di questo paralitico raffigura la salvezza dell’anima la quale, sospirando verso Cristo dopo la lunga inerzia dell’ozio carnale, ha dapprima bisogno dell’aiuto di tutti per essere sollevata e portata a Cristo, cioè dell’aiuto dei buoni medici che le ispirano la speranza della guarigione e intercedono per lei. A buon diritto viene riferito che il paralitico era condotto da quattro persone; sia perché sono i quattro libri del Santo Vangelo che convalidano la parola e l’autorità di chi diffonde il Vangelo; sia perché sono quattro le virtù che infondono sicurezza allo spirito e lo portano alla salvezza. Di tali virtù si parla quando si loda l’eterna sapienza: «Temperanza e prudenza ella insegna, e giustizia e for-tezza delle quali niente c’è di più necessario per gli uomini nella vita» (Sap 8,7). Alcuni, penetrando il senso di questi nomi, chiamano tali virtù prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.

E non riuscendo a portarlo davanti a lui per la folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli stava (Mc 2,4).

Desiderano presentare a Cristo il paralitico, ma ne sono impediti dalla folla che li preme da ogni parte. Accade ugualmente sovente all’anima, dopo l’inerzia del torpore carnale, che, volgendosi a Dio e desiderando essere rinnovata dalla medicina della grazia celeste, sia ritardata dagli ostacoli delle antiche abitudini. Spesso, quando l’anima è immersa nella dolcezza della preghiera interiore e intrattiene quasi un soave colloquio con il Signore, sopraggiunge la folla dei pensieri terreni e impedisce che lo sguardo dello spirito veda Cristo. Che cosa dobbiamo fare in tali frangenti? Non dobbiamo certamente restar fuori e in basso dove tumultano le folle; dobbiamo salire sul tetto della casa nella quale Cristo insegna, cioè dobbiamo tentare di raggiungere le altezze della sacra Scrittura e meditare, di giorno e di notte, con il salmista, la legge del Signore.

«Come» infatti «potrà un giovane serbare puro il proprio cammino? Nel custodire — dice il salmista — le tue parole» (Sal 118,9).

(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang. Marc., I, Mc 2,3-4. In BEDA, Commento al Vangelo di Marco, Vol. 1, Roma, Città Nuova Editrice, 1970, p. 71-72).

Confermarsi l’un l’altro nella fede

«Decisi di porre fine alla mia vita, che era stata estremamente egoista e immorale. Ero talmente infelice che volevo farla finita con tutto. Volevo morire per affogamento. Immaginavo l’oceano come un’ampia madre d’acqua che mi avrebbe cullato sulle onde e ripulito nelle sue acque.

Giunsi sulla riva dell’oceano, dove dovevo morire. Camminai tutta sola lungo la spiaggia deserta. Quel giorno, però, l’oceano non era una distesa d’acqua calda e materna. Il tempo era brutto, e la distesa d’acqua era una bestia ringhiosa. Dentro di me sapevo di dover morire, di farla finita con tutto, e se dovevo darmi a una bestia ringhiosa, anziché gettarmi nelle braccia di una grande madre, che così fosse.

Camminavo sulla spiaggia sabbiosa e stavo per girarmi per entrare in acqua, quando udii una voce molto chiara, che sembrava venire da dentro di me. Era molto distinta e chiara. La voce mi chiedeva di fermarmi, di girarmi e guardare in basso. C’era qualcosa di irresistibile in quell’ordine, perciò feci quanto mi veniva richiesto. Vedevo solo le onde dell’oceano che, giungendo a riva, cancellavano le mie impronte sulla sabbia. La voce tornò a farsi sentire: “Così come le acque cancellano le tue impronte, allo stesso modo il mio amore e la mia misericordia hanno cancellato ogni traccia dei tuoi peccati. Ti rivoglio nel mio amore, ti chiamo alla vita e all’amore, non alla morte”.

Fu come un raggio di luce accecante nell’oscurità che a quell’epoca costituiva la mia vita. Mi allontanai dall’acqua e da qualsiasi pensiero di morte. Con il continuo amore e aiuto di Gesù, ho trovato una vita bella e piena di soddisfazione. Ora vivo e amo.

Ma non avevo mai raccontato a nessuno, proprio a nessuno, ciò che mi accadde quel giorno sulla spiaggia. Tutta la mia vita è stata cambiata per sempre da questa esperienza. Ciononostante temevo che, se l’avessi condivisa, qualcuno avrebbe potuto dirmi che era tutto un sogno, un inganno. Qualcuno potrebbe dirmi che non volevo realmente morire, perciò mi sono inventata una voce che mi dicesse ciò che davvero volevo sentirmi dire.

Da allora, una parte così grande della mia vita, della vita buona e bella che ho trovato, è talmente fondata su quel momento, che non potrei metterne a rischio la sacralità affidandola a mani che potrebbero essere dure e insensibili. Non tollererei di permettere che qualcuno prenda il mio segreto più sacro e lo metta in ridicolo.

Dopo avere letto il tuo libro, ho pensato che avresti capito, perciò ho voluto condividere tutto questo con te. Alla fine del tuo libro hai scritto che raccontare la tua storia è stato il tuo dono d’amore per noi. Ti prego, dunque, di accettare il racconto di questa mia storia come il mio dono d’amore per te».

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 174-175).

Le mie mani

Le mie mani, coperte di cenere, segnate dal mio peccato e da fallimenti,

davanti a te, Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di costruire

e perché tu ne cancelli la sporcizia.

Le mie mani, avvinghiate ai mie possessi e alle mie idee già assodate,

davanti a te, o Signore, io le apro, perché lascino andare i miei tesori…

Le mie mani, pronte a lacerare e a ferire, davanti a te, o Signore,

io le apro, perché ridiventino capaci di accarezzare.

Le mie mani, chiuse come pugni di odio e di violenza, davanti a te,

o Signore, io le apro, deponi in loro la tua tenerezza.

Le mie mani, si separano da loro peccato, davanti a te, o Signore,

io le apro: attendo il tuo perdono.

(Charles Singer).

Sofferenza materia prima della redenzione

Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.

Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.

Tu dici del tuo amico:

lo porto nel mio cuore,

mi vergogno per lui del suo peccato,

la sua sofferenza mi fa male.

È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.

Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito. Egli li ha tutti riuniti in Sé:

portando tutti i loro peccati,

soffrendo tutte le loro sofferenze,

morendo della loro morte.

Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, « cancellali », le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte. Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.

(M. QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).

II ramo da riattaccare

Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal. «Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha. «Taglia un ramo di quell’albero». Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?». «Rimettilo a posto» ordinò Buddha. Il bandito rise. «Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere». «Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere. Quella è roba da bambini. La vera forza sta nel creare e risanare».

(Racconto buddista)

Dalla vita di Antonio

Ebbene, Atanasio dice di Antonio, una volta che questi divenne padre spirituale rinomato per la santità:

«Antonio fu come un medico donato da Dio all’Egitto. Chi venne da lui triste e non se ne andò gioioso? Chi si presentò a lui in lacrime per i propri morti e non abbandonò presto il lutto? Chi arrivò in collera e non cambiò la sua ira in amicizia? Quale povero, schiacciato dallo sfinimento non arrivò a capire, attraverso le sue parole e avendolo visto, il disprezzo delle ricchezze e la consolazione della povertà? Quale monaco scoraggiato non fu reso più forte dopo aver parlato con lui? Chi venne a lui nelle tentazioni del demonio e non trovò riposo? Chi venne tormentato da pensieri malvagi e non si sentì pacificato nell’animo?» (Vita di Antonio, 87).

(Luciano MANICARDI, La paternità spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 301-308).

Il Perdono

O Signore,

per vivere Te in mezzo agli uomini,

uno dei più grandi rischi da prendere è quello di perdonare,

di dimenticare il passato dell’altro.

Perdonare e ancora perdonare,

ecco ciò che libera il passato e immerge nell’istante presente.

Amare è presto detto.

Vivere l’amore che perdona, è un’altra cosa.

Non si perdona per interesse,

non si perdona mai perché l’altro sia cambiato dal nostro perdono.

Si perdona unicamente per seguire Te.

In vista del perdono oserei pregarti, o Gesù,

con la tua ultima preghiera:

Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.

E questa preghiera ne farà nascere un’altra:

Padre, perdona me, perché così spesso anch’io non so ciò che faccio.

Fa’ che sappia ricominciare sempre di nuovo a convertire il mio cuore:

per essere testimone di un avvenire.

(Regola di Taizé)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006-.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Per approfondire… VII DOM TEMP ORD ANNO B